CAPITOLO 4: LEGAMI
Nonostante fossero
le dieci del mattino, il caldo era soffocante. Una cortina umida che
ti premeva sulle tempie, ti faceva attaccare le mutande al culo e ti
faceva grondare sudore dalle sopracciglia.
Viaggiavano in
silenzio. Stevens al volante, Carl che guardava distrattamente fuori
dal finestrino, con l'aria di qualcuno che non è particolarmente
interessato a ciò che gli passa davanti.
“Dovremmo arrivare tra
una decina di minuti.” Disse infine Stevens. “Il direttore
Greysmith sa che stiamo arrivando.”
Carl annuì,
pensoso.
“Com'è, il direttore? Lei ci ha mai parlato,
sceriffo?”
“Puoi darmi del tu, Carl. A questo punto...”
“Non
se la prenda a male. E' più forte di me. Le assicuro che è una
questione di rispetto. Sarà anche una cosa che mi è rimasta dai
tempi dell'esercito, immagino.”
Stevens sorrise.
“Ci credo.
Ma mi fa sentire vecchio lo stesso.”
Carl sorrise leggermente,
un sorriso che non coinvolgeva minimamente gli occhi.
“L'età è
solo una questione mentale, sceriffo.”
“Cazzate.”
“Lo
so.”
Ridacchiarono insieme.
“Comunque, ti dirò, Greysmith
mi sta simpatico. La sera dell'esecuzione, mi ha fatto una buona
impressione.”
“Meglio così.” Disse semplicemente
Carl.
“Già.”
Viaggiarono per altri cinque minuti in
silenzio, prima che Stevens avesse il coraggio di fare la domanda che
gli frullava in testa da quando si era svegliato.
“Carl...”
“Sì?”
Il
ragazzo si voltò e guardarlo, intuendo dal tono di voce dello
sceriffo che era una questione importante.
“Carl... Se troviamo
questa persona, e se viene fuori che è veramente stato lui ad
uccidere tua sorella, cosa intendi fare? Che cosa vuoi,
veramente?”
Carl ci riflette' a lungo, guardandosi le
mani.
“Voglio guardarlo negli occhi.”
“E poi?”
“Per
ora, ho pensato solo a questo.”
“Non ti credo.”
Carl
sorrise di nuovo, sempre con quegli occhi freddi e distanti.
“No.
In effetti, neanche io mi credo.”
Stevens sospirò.
“Siamo
arrivati.”
Carl si guardò intorno con moderato interesse,
mentre i due uomini attraversavano il corridoio che conduceva
all'ufficio di Greysmith. Le pareti erano state riverniciate di
recente, di un anonimo bianco. Questo non aveva nascosto del tutto le
profonde crepe nell'intonaco, ma aveva senz'altro aiutato. Le
piastrelle verdi su cui camminavano erano vecchie e spesso sbeccate,
ma erano anche lucide e prive di macchie.
L'edificio mostrava
chiaramente di essere in attività da un bel po', ma non cascava
ancora a pezzi ed era ancora adeguato al suo compito. Un dignitoso
servo dello stato, insomma.
Un po'
come me. Pensò lo sceriffo, a metà
tra il divertito e l'amareggiato. Era una combinazione di emozioni
che provava più spesso di quanto avrebbe voluto ammettere.
A
differenza di lui, però, l'edificio sembrava stare meglio del
solito.
“Greysmith ha fatto dare una bella sistemata, qui
dentro.” Disse lo sceriffo.
“Ah, sì?”
“Oh, sì. Quel
ciccione bastardo che c'era prima teneva il posto come se fosse il
manicomio di un film dell'orrore. Faceva abbastanza schifo,
sinceramente. Un po' come lui. Ora non sarà un posto dove portare la
famiglia per il pranzo di natale, ma è senz'altro meglio. Più
pulito, più curato.”
Carl annuì, come sempre immerso nei suoi
pensieri. O, forse, stava solo cercando di tenere a bada un feroce
mal di testa post sbornia. Difficile dirlo.
“Là dentro, fai
parlare me.” Disse Stevens, quando la porta fu a pochi metri da
loro.“A meno che tu non venga interpellato direttamente. E anche in
quel caso, cerca di essere conciso e di non esporti troppo. Va
bene?”
“D'accordo.”
Arrivarono alla porta dell'ufficio.
Stevens bussò delicatamente e attese una risposta.
“Avanti.”
Il
direttore li accolse, alzandosi in piedi e porgendo subito la mano
allo sceriffo.
“Sceriffo, buongiorno.”
“Buongiorno,
direttore.”
“E' un piacere rivederla.” Disse Greysmith, con
breve sorriso.
“Anche per me. Grazie di averci ricevuto così
presto.”
“Si figuri.”
L'ufficio era modesto, ma
estremamente ordinato. La finestra era piccola, ma illuminava
perfettamente la sobria scrivania in mogano, dove fascicoli e moduli
circondavano un computer dall'aria vecchiotta ma immacolata. Un
quadernino era aperto vicino alla tastiera, pieno di appunti
minuziosamente scritti. Non c'erano tracce di polvere, su alcuna
superficie. Era l'ufficio di una persona che lavora sodo, e che va
fiera del proprio lavoro.
Fuori dalla finestra, forse dal cortile
sottostante, una cornacchia emise il suo verso sgraziato e
prepotente. Come il cianciare di una vecchia comare che non può fare
a meno di spettegolare ed è troppo sorda, o troppo stupida, per
rendersi conto di star alzando la voce.
Poi, tornò il
silenzio.
Il direttore porse la mano a Carl.
“Piacere di
conoscerla, signor...?”
“Riley. Carl Riley.”
Gli occhi
del direttore si dilatarono leggermene, illuminati dall'interesse e
dalla comprensione.
“Ah. Capisco. E' un piacere conoscerla,
signor Riley.”
“Anche per me.”
“Prego, sedete.
Sedete.”
I tre uomini si sedettero. Greysmith dietro la sua
scrivania, i due ospiti su delle attempate sedie spelacchiate di un
orrido color cannella. Per una decina di secondi, che sembrarono
minuti interi, i tre uomini si studiarono. Si studiarono, in effetti,
come degli avversarsi che giocano a poker e cercano di non far
traspirare alcuna emozione che possa fotterli proprio sul più bello.
“Allora, signori.” Disse infine il direttore. “Come posso
aiutarvi, stamane?”
Fuori dalla finestra, la cornacchia urlò
nuovamente, solo per un istante.
Poi, cadde di nuovo il silenzio,
mentre lo sceriffo si chiedeva quale fosse il modo migliore di
iniziare.
Ci vollero dieci minuti, per riassumere il tutto.
Stevens non si stupì di constatare che il cuore gli batteva forte,
verso la fine. Pigramente, si chiese quanti anni di vita gli stesse
togliendo quella storia.
Il direttore si tolse gli occhiali e si
strofinò gli occhi. In quel momento, sembrava più vecchio di almeno
cinque anni. Il suo viso era pallido, fragile.
"Avevo sentito
degli omicidi, naturalmente." Disse Greysmith. "Ma speravo
che questa storia delle telefonate fosse solo un'invenzione macabra
di qualcuno. Non immaginavo..."
Per un momento, non disse
altro. Poi, alzò la testa e guardò Stevens negli occhi.
"Cosa
posso fare per voi, sceriffo? Cosa vi serve?"
"Ci
chiedevamo se potesse fornirci una lista delle persone che hanno
visitato Chris, quand'era qui. Non aveva familiari rimasti in vita,
ma pensiamo che forse questo nuovo assassino possa averlo incontrato
mentre era detenuto qui."
Greysmith sorrise, con aria
mesta.
"E' una buona ipotesi, ma temo di non avere nulla da
dirvi."
"Mi rendo conto che potrebbe passare dei guai,
per questo." Disse Carl. "Ma, la prego, ci
serve-"
Greysmith sorrise di nuovo, questa volta con
espressione gentile.
"No, signor Riley. Lei mi ha frainteso.
Sarebbe assolutamente nei miei poteri dirvi chi lo ha visitato. E
anche se fosse contro le regole, ve lo direi comunque. Non tollero
l'esistenza di simili mostri. Ma non ho davvero nulla da dirvi.
Nessuno ha fatto visita a Jimmy Chris, mentre era detenuto qui.
Nessuno."
Carl sembrò afflosciarsi nella
sedia.
"Nessuno?"
"Temo di no."
Stevens
non fu sopreso di questa notizia, ma non si diede per vinto.
"Cosa
ci dice della sua posta, invece? Riceveva molte lettere?"
Greysmith
sospirò, colmo di disgusto.
"Oh, sì. Insulti, richieste di
interviste per qualche blog e qualche minaccia di morte. E,
ovviamente, un sacco di ammiratori. E ammiratrici."
"Ammira..."
Carl inarcò le sopracciglia. "In che senso?"
"Non
lo sapevi, Carl?" Disse Stevens, che aveva la stessa espressione
disgustata del direttore. "I serial killer ricevono spesso
lettere di ammiratori e ammiratrici. Gente che si eccita nel pensare
di star parlando con un assassino, gente convinta che siano
incompresi, gente che spera di sentire dettagli scabrosi dal diretto
interessato..."
Lo sceriffo guardava il proprio cappello,
mentre parlava.
"Una volta, mi dicevo che è solo il gusto
del proibito. Che non sono brutte persone, in fondo. Ma ora... Non lo
so."
Greysmith annuì.
"L'essere umano è strano e
meraviglioso. Ma soprattutto strano."
Carl si passò la mano
sui corti capelli scuri.
"Possiamo vedere le lettere ricevute
da Chris?"
Greysmith lo studiò, con espressione seria.
"Non
vedo perché no. In effetti, le avevo già preparate per lo sceriffo.
Se lui garantisce per lei, signor Riley, non ho problemi a
darvele."
"Garantisco." Disse Stevens.
Il
direttore annuì, aprì un cassetto alla sua destra ed estrasse una
pila di buste. Erano almeno una sessantina.
"Accidenti."
Disse Carl. "Una vera rockstar."
Greysmith annuì.
"Il
caso Chris fu enorme. Gli scrissero in molti. E, se posso darvi un
consiglio..."
"Dica pure." Disse Stevens, con
interesse.
"C'è una ragazza che gli scriveva spesso. Olivia Reese. Era letteralmente ossessionata da Chris. Credo che dovreste
approfondire la cosa. Io, personalmente, partirei da lì."
"Gli
scriveva spesso?" Chiese Carl.
"Oh, sì." Rispose
il direttore. "Quasi una volta a settimana. Una vera
fangirl."
"E Chris cosa pensava di lei, le ha mai
risposto?" Chiese lo sceriffo.
"Solo una volta."
Disse Greysmith. "All'inizio. Poi smise subito."
"Come
mai?" Chiese Carl.
"La trovava inquietante." Disse
il direttore, sorridendo. "Diceva che bisognava essere pazzi,
per ammirare uno come lui. E che non voleva averci nulla a che fare.
Le disse di lasciarlo in pace, perché lo spaventava."
I tre
uomini risero, per metà divertiti e per metà basiti. La vita aveva
senz'altro un senso dell'umorismo, ma la qualità era abbastanza
discutibile.
Uscendo dall'ufficio di Greysmith, Carl si passò
compulsivamente la mano tra i capelli corti. Era un gesto nervoso che
Stevens gli vedeva fare spesso.
"Tutto bene?" Gli chiese
lo sceriffo.
Il ragazzo si voltò lentamente verso di lui, con
l'aria distratta di chi è perso nei suoi pensieri.
"Come?
Ah, sì. Sì, tutto bene..."
Lo sceriffo teneva in mano le
lettere. Toccarle, gli faceva quasi schifo, come se fossero
contaminate dai germi della follia e della morbosità.
"Ora
passeremo un attimo in centrale. Farò cercare questa Olivia Reese.
Trovato il suo indirizzo, le andremo a parlare."
"Crede
davvero che possa essere lei, sceriffo?"
L'uomo più anziano
si carezzò i baffi.
"Non lo so. Solitamente, i serial killer
sono uomini. In media, uomini bianchi sulla mezza età. Ma non
sarebbe di certo la prima donna serial killer della storia. Le
statistiche non sono certo delle regole scritte nella pietra."
Carl
annuì. I due uomini si avviarono per il corridoio.
"C'è
anche un'altra pista su cui vorrei indagare." Disse lo sceriffo,
dopo qualche momento di esitazione.
"Ovvero?"
"Gli
amici di Kelly."
Carl lo guardò, con quegli occhi così
incredibilmente simili a quelli della sorella morta. Era quasi come
essere osservato da lei, rifletté Stevens, con un leggero
brivido.
"Amici?"
Lo sceriffo misurò le parole. Non
voleva irritare il ragazzo, ma doveva anche essere chiaro.
"Kelly
era una ragazza molto popolare, Carl. Lo sai. Aveva molti amici, e
anche molti spasimanti. Questo non la rendeva una brutta persona, ma
l'assassino potrebbe essere tra loro."
Carl inspirò, dando
l'aria di voler calmare i nervi.
"Molti spasimanti, già. Fu
quello che dissero i giornali, all'inizio. Se lo ricorda?"
Stevens
annuì, serio.
"Mi ricordo."
Inizialmente, non c'era
stato motivo per credere che si trattasse di un serial killer. Specie
perché, a parte Stevens e il suo vice, nessuno sapeva del drago di
plastica. Quindi, alcuni giornalisti avevano indagato sulla vittima e
avevano tratto delle conclusioni molto frettolose, per non dire
offensive.
Una ragazza che aveva perso i genitori quand'era
adolescente, che faceva uso di alcol e di droghe, che aveva sempre
molti maschi intorno a lei. Anche se non era mai stato detto
espressamente, il sotto testo moralista di quegli articoli era
chiaro: Kelly era una poco di buono, una sbandata. E quel tipo di
ragazza non è, in fondo, causa dei propri mali?
"Va bene."
Disse Carl. "Indagheremo sulle sue amicizie. Ma come li
troviamo?"
"Nessun problema. Ai tempi delle prime
indagini, mi segnai vari nomi. Trovarli non sarà
difficile."
"OK."
Erano arrivati all'uscita. Ad
aspettarli, c'erano il capo delle guardie, Gibble, e un'altra guardia
che a Stevens stava abbastanza simpatica. Gli sembrava che si
chiamasse Busey, o qualcosa del genere. Aveva forse trent'anni ed era
di media statura, ma accanto a quel bulldog incazzoso di Gibble
sembrava quasi un ragazzino.
"Buongiorno, sceriffo
Stevens." Disse la guardia più giovane, con un sorriso.
Gibble
si limitò a un grugnito.
"Buongiorno a voi." Rispose lo
sceriffo.
"E buongiorno, signor...?" Disse Busey,
guardando Carl con interesse.
"Riley. Buongiorno."
Rispose lui, con tono neutro.
La guardia sorrise.
"E' una
bellissima giornata, oggi. Capisco perché vi sia venuta voglia di
fare una bella gita qui. Non per vantarci, ma la gente farebbe
letteralmente di tutto
per entrare qui de-"
"Stai un po' zitto, Lloyd."
Abbaiò Gibble.
Il sorriso di Busey si spense.
“Sissignore.”
“Non
fai ridere nessuno, che cazzo.”
“Sissignore. Mi scusi.”
In
realtà, a Stevens un sorrisino era scappato. Ma questo non migliorò
di certo l'umore di Gibble. Sempre osservando lo sceriffo con
antipatia, aprì per loro il cancello che conduceva all'esterno.
I
due uomini furono più che contenti di uscire e, a passo spedito,
raggiunsero la macchina del poliziotto.
“E' sempre così
amichevole, il capo delle guardie?” Chiese Carl.
“Oh, anche di
più. Purtroppo, non gli sono mai stato molto simpatico.”
“Un
vero peccato.”
“L'hai detto.”
Mentre guidava verso la
centrale, Stevens si ritrovò a riflettere sulle prigioni. Nella sua
mente, erano associate indelebilmente a tribunali, centrali di
polizia e ospedali. Basi della civiltà come la intendiamo, luoghi
considerati essenziali. Ma anche luoghi di dolore. Luoghi dove
succedono cose brutte tutti i giorni, dove il sangue e la sofferenza
sembravano aver ormai intriso le pareti. Chi ci lavora non se ne
accorge più, come un allevatore che ormai non sente più la puzza
della merda di vacca, ma quel dolore rimane. Nell'aria. Nessuno potrà
mai eliminarlo.
“Dovevi fare il filosofo, invece del
poliziotto.” Gli diceva spesso Mary.
“Quelli non guadagnano un
cazzo.” Gli rispondeva immancabilmente lui, facendo ridere
entrambi.
Giunto a quell'età, però, si chiedeva sempre più
spesso come sarebbe stata la sua vita, se avesse scelto un altro
lavoro. Migliore? Peggiore? O semplicemente diversa?
Domande che
ci facciamo tutti, a qualche punto. Domande inevitabili e
completamente inutili, come tutto ciò che viene fatto col senno di
poi.
“Fanculo...” Borbottò lo sceriffo, senza rendersi conto
di averlo detto a voce alta.
“Già. “Rispose semplicemente
Carl, guardando fuori dal finestrino.
“Scusa, pensavo ad alta
voce.”
“Beh, il messaggio era condivisibile.”
Stevens
sorrise.
“Che ne dici se, prima di andare in centrale, facciamo
un salto da Maggie? Ho una certa fame.”
“Va bene.”
“Offro
io, se mi prometti di bere solo dell'aranciata.”
Carl
sorrise.
“Vediamo.”
Si erano ormai fatte le due. Il
sole aveva una sfumatura vagamente malinconica, quel tipo di luce che
ti mette voglia di fare un riposino pomeridiano o di leggere un libro
su un'amaca. Qualunque cosa, a parte lavorare. Maggie aveva appena
portato via i piatti vuoti, lasciando sul tavolo solamente il ginger
ale dello sceriffo e la birra di Carl.
“Tu credi in Dio,
Carl?”
Carl alzò lo sguardo dal tavolo. Aveva passato gli
ultimi minuti assorto nei suoi pensieri, con quello sguardo vagamente
spiritato che inquietava leggermente Stevens. Ora, invece, aveva
un'espressione a metà tra l'incredulo e il divertito.
“Accidenti,
sceriffo. Mi colpisce a tradimento con queste domande esistenziali,
proprio dopo un lauto pasto? Non è illegale?”
Stevens
sorrise.
“Non se si è della polizia. E' scritto sullo
statuto.”
Carl annuì, fingendosi colpito.
“Quindi non
posso evitare la domanda?”
“Puoi appellarti al quinto
emendamento, se vuoi.”
“Nah, rispondo senza problemi e
rinuncio ad avere un avvocato durante l'interrogatorio.”
Stevens
ridacchiò.
“No, non credo in Dio.”
Lo sceriffo annuì. Non
era sorpreso.
“Perché me lo chiede?”
Il poliziotto si
strinse nelle spalle.
“Non lo so, esattamente. E' qualcosa che
mi chiedo sempre, delle persone che incontro. Specie quando hanno
visto roba brutta, come te e me.”
Carl annuì.
“Capisco.
Lei ci crede, sceriffo? Immagino di sì, sennò non me lo
chiederebbe.”
Stevens esitò, prima di rispondere. Guardava il
proprio cappello, abbandonato sul tavolino.
“Io... Credo di
volerci credere.
So per certo che ci credevo di più in passato.”
“Prima che
morisse sua moglie?”
Lo sceriffo alzò lo sguardo, serio. Carl
si accigliò.
“Mi scusi. E' stata una domanda maled-”
“No,
non devi scusarti. Ho iniziato io questa conversazione e la tua
domanda è assolutamente legittima. Sì, la morte di Mary ha
decisamente messo a dura prova la mia fede. Non lo nego. Del resto,
era sempre stata lei quella più credente. Fosse stato per me, la
domenica mattina avrei dormito fino alle undici. Se Dio è
dappertutto, è anche nel mio letto, no?”
Carl sorrise.
“Ma
Mary voleva andare in chiesa e io volevo stare con lei. Molto
semplice.”
Lo sceriffo si schiarì la voce.
“Ormai non ci
vado più da... Cavolo, chissà da quanto. Lei, invece avrebbe
mantenuto la stessa fede, se fossi morto prima io. Forse ci avrebbe
creduto anche di più, sai?”
Carl annuì, pensoso.
“Sarò
sincero, sceriffo. Prima che morisse Kelly, io non ero comunque
credente. Ma, dopo la sua morte, la questione è diventata più
profonda.”
Stevens lo osservò, interessato. Carl si grattò la
guancia e fissò la propria birra, mentre parlava.
“Prima,
semplicemente, avevo poco interesse nella questione. Non vedevo che
differenza facesse. Pensavo ai miei problemi, alle cose che dovevo
fare. Insomma, fede o non fede, bisogna sempre guadagnarsi il pane,
no?”
Lo sceriffo sorrise, annuendo.
“Poi, alcune delle cose
che ho visto nell'esercito hanno, come dire, confermato che Dio non
esiste. O che, se esiste, se ne sbatte della gente. E, alla fine, non
faceva molta differenza. Almeno per me.”
Stevens osservava il
ragazzo con attenzione. Le voci degli altri clienti nel diner erano
un sottofondo irrilevante. In quel momento, esistevano solo lui e
Carl.
“Ma, dopo Kelly, la questione è diventata diversa. Ho
passato più tempo a pensare. Troppo, direi. Sono sicuro che lei lo
sa, quanto tempo si ha a disposizione per pensare, quando muore
qualcuno che amiamo. Non finisce mai.”
Nessuna risposta da parte
del poliziotto. Non serviva.
“Ho pensato anche a Dio. A Dio,
all'aldilà, all'idea di un disegno cosmico. Tutti gli annessi e
connessi. E sa cosa credo, adesso, sceriffo?”
Il ragazzo alzò
lo sguardo dalla sua birra e fissò Stevens negli occhi.
“Credo
che le cose siano casuali, in questo universo. Totalmente,
orribilmente casuali. A volte il caso ha effetti che a noi risultano
positivi, ovviamente. E' casuale quanto un qualche bidello vince la
lotteria. O quando un tumore va in remissione spontanea. E' casuale,
ma è anche positivo, quindi tutti urlano al miracolo. Ma spesso, la
maggior parte delle volte, questo caso si esprime in modi che per noi
sono negativi. Facendoci del male, spaventandoci, portandoci via cose
che amiamo. In quel caso, non si parla di miracolo. Si accetta come
normale, come parte della vita di tutti i giorni. Le sofferenze sono
viste come norma, la fortuna come un favore.”
Stevens annuì.
Non era un gesto che indicava necessariamente accordo, ma era un
gesto che esprimeva comprensione e interesse.
Carl
ridacchiò.
“Sembra uno studente, sceriffo. La sua
concentrazione è molto lusinghiera. Sembra pronto a prendere
appunti.”
Lo sceriffo sorrise e si indicò la testa.
“Sto
annotando tutto qui dentro, non dubitare. Ora continua, ti
prego.”
“Va bene.”
Il ragazzo bevve un sorso dalla sua
bottiglia.
“Io, sceriffo, guardo il cielo e vedo solo una grande
indifferenza. Un opprimente, soffocante infinito. Una realtà in cui
non si può mai abbassare la guardia, perché c'è sempre qualcosa in
agguato che potrebbe fare del male a te o alle persone che ami. C'è
chi chiama questo caso Dio, o chi vuole credere che sia tutto parte
di un disegno. Io, onestamente, non vedo cosa ci sia di rassicurante,
in questa idea. Se è una tragica fatalità a uccidere qualcuno che
amiamo, ci fa impazzire. Ma se è stato Dio a ucciderlo, siamo
felici? No, non mi dà alcun sollievo. Non trovo che abbia molto
senso.”
Il ragazzo si mise a giocare distrattamente con il tappo
della bottiglia, facendolo girare pigramente sul tavolo.
“Non
credo in Dio e non credo neanche nell'aldilà. Non credo che ci fosse
un motivo valido, per far morire Kelly. E nessun motivo mi andrebbe
bene. Non credo neanche che la rivedrò, se è per questo. Vedo solo
una vasta, indifferente ed eterna oscurità. Quando morirò, ne farò
parte anche io. Ma, in realtà, ne ho sempre fatto parte. L'unica
differenza, è che dopo non ne sarò più consapevole.”
“Quindi
non c'è una giustizia cosmica, secondo te? I debiti non verranno
saldati, a qualche punto? Non c'è un significato più grande? Un
ordine di qualche tipo?”
Carl scosse la testa.
“L'unico
modo per avere un po' di giustizia e di ordine, per quanto mi
riguarda, è farsi il culo qui, nel presente. Nessun disegno valeva
la vita di mia sorella e me ne sbatto della giustizia divina o della
retribuzione nell'aldilà. Non intendo scommettere tutto su un
fantomatico dopo che nessuno può dimostrare. Fermiamo i mostri qui,
in questa vita. Abbattiamoli subito. E cerchiamo di dare valore alle
cose che abbiamo nel presente. Alle persone che abbiamo qui. Finché
possiamo. Questo credo.”
Carl smise di giocare con il tappo.
“Il resto è una montagna di cazzate che le persone si ripetono
per non impazzire e per non osservare l'assurdità del cosmo negli
occhi. Mi dispiace dirlo in modo così brutale, ma è quello che
penso. Per quanto mi riguarda, gli esseri umani che si convincono che
Dio aveva un buon motivo per creare il cancro o spazzare via un
villaggio con uno tsunami, non sono diversi dai figli di genitori
violenti che si convincono di essersela cercata, in qualche modo.
Papà non è cattivo, ha sicuramente avuto i suoi buoni motivi per
spegnermi addosso la sigaretta. Forse sono stato io, quello
cattivo.”
Carl riprese fiato e finì la sua birra. Stevens non
disse nulla.
“Mi dispiace, sceriffo. So di essere pesante, nel
mio pessimismo. Anche se io, personalmente, lo definirei realismo. So
che risulto deprimente. Per questo parlo poco.”
Stevens sorrise
e scosse la testa.
“Credo che ti faccia bene parlare, Carl. E a
me fa piacere ascoltare.”
Anche Carl sorrise.
“E di quello
che ho detto, cosa ne pensa?”
“Stasera rivedo i miei appunti e
ti faccio sapere.”
I due risero insieme. Un bel suono, quello
semplice e limpido di due amici che pranzano insieme.
“Beh,
direi che è ora di andare.” Disse infine Stevens. “Passiamo un
attimo in centrale e-”
Si udì il suono di un cellulare. Veniva
dalla tasca dello sceriffo.
“Scusami un attimo,
Carl.”
“Certo.”
“Dannati aggeggi... Un attimo!” Disse
Stevens, estraendo il telefono. “Pronto? Qui Stevens.”
L'uomo
ascoltò con attenzione. Con apprensione, Carl vide il voto
dello sceriffo sbiancare.
“Sì... Ho capito. Arrivo
subito.”
Spense il cellulare e lo rimise in tasca.
“E'
successo di nuovo, vero?” Chiese Carl. “Un'altra
ragazza.”
Stevens annuì.
“Figlio di puttana...”
Questa
volta, il corpo era stato trovato sotto un cavalcavia, poco fuori
città. Servivano altri esami, ma il coroner stimò che la ragazza
dovesse essere stata uccisa la notte prima, come minimo. Le tracce di
sangue intorno al corpo suggerivano che l'omicidio fosse avvenuto
proprio lì. Era una strada secondaria, circondata dai boschi e poco
frequentata di notte. Ucciderla lì era stato un rischio, ma non
eccessivo. L'assassino aveva poi coperto il corpo con delle buste
della spazzatura. Decine di macchine vi erano passate davanti,
inconsapevoli di quell'orrore. Poi, finalmente, un camionista si era
fermato lì vicino per pisciare e aveva visto qualcosa di pallido che
sbucava dalla plastica nera.
“Ho pregato che fosse solo un
manichino, o qualcosa del genere. Invece... Povera ragazza...”
L'uomo
si chiamava Trent Avery. Aveva l'aria sconvolta, ma non isterica.
Aveva chiamato subito la polizia e poi era rimasto lì ad aspettare
gli agenti. Un gesto onorevole, in effetti. Non tutti sarebbero
rimasti.
“Non ha visto nessuno, qui intorno?” Chiese
Stevens.
“No, nessuno. Mi dispiace.”
“Se posso
chiederglielo, dov'era ieri notte?”
“A più di duecento
chilometri da qui. Ho dormito qualche ora in un piccolo albergo,
sull'intestatale. Ho guidato tutta la mattina e sono arrivato qui
solo oggi pomeriggio.”
“Potrebbe fornirmi il nome
dell'albergo?”
“Certo. Un secondo, che ora non mi
ricordo...”
Il camionista prese fuori il proprio cellulare e
controllò le sue ultime ricerche.
“Eccolo. Il Welcome
Inn.”
Stevens si annotò nome e numero di telefono.
“La
ringrazio. La contatteremo se avremo ulteriori domande. E' pregato di
restare in città per almeno ventiquattro ore.”
“D'accordo.
Per fortuna ho consegnato il carico stamattina. Sennò il capo mi
avrebbe scartavetrato le palle.”
Stevens gli sorrise e lo
ringraziò di nuovo, poi si allontanò e tornò alla macchina. Fu
felice di constatare che Carl era ancora dentro. Lo sceriffo si era
fatto promettere dal ragazzo che non sarebbe uscito, per nessun
motivo. Fortunatamente, era stato ascoltato.
Stevens però vedeva
lo sguardo spiritato con cui il ragazzo osservava il corpo,
circondato dalle sagome bianche dei membri della
scientifica.
“Andiamo via.” Disse, salendo a sua volta in
macchina. “Non possiamo fare altro, qui.”
“Che cosa c'era,
stavolta?” Chiese Carl.
“Come?”
“Insieme al corpo. Che
oggetto hanno trovato?”
Stevens sospirò.
“In una delle
buste, abbiamo trovato una trottola. Deve averla messa nelle buste
per paura che andasse persa, immagino.”
Carl annuì.
“Di
che colore?”
“Viola.”
“E quel tipo con cui ha parlato?
Come le è sembrato? C'entra qualcosa?”
“In centrale
verificheremo il suo alibi, ma non credo che c'entri nulla.”
“Come
fa a dirlo?”
“Istinto.”
Il ragazzo annuì di nuovo.
“E
la ragazza? E' stata uccisa qui o ce l'ha portata
l'assassino?”
“Devono fare altri rilievi, ma sembrerebbe che
sia stata uccisa qui e poi lasciata sotto le buste tutta la
notte.”
“Perché mai una ragazza se ne starebbe qui, in piena
notte?”
Stevens scosse la testa.
“Non lo so, Carl . Forse
ce l'ha portata lui con la forza. O forse era una prostituta e lui
aveva un auto. Lo scopriremo.”
“Avete un nome?”
Lo
sceriffo scosse la testa.
“Nessun documento e nessuna borsetta.
Questa volta, se li è portati via. Ci vuole rallentare.”
“O
prendere per il culo.”
“Già.”
Stevens mise in moto. I
due uomini rimasero in silenzio, mentre l'auto si avviava verso la
centrale di polizia.
Era un'altra bellissima giornata di
sole.
“La scientifica conferma: la ragazza è stata uccisa
proprio lì sotto.”
“Povera ragazza.”
“Già.”
Si
trovavano nell'ufficio di Stevens. Erano le quattro del pomeriggio e
il sole picchiava più forte che mai. Lo sceriffo sedeva sulla sua
vecchia, fidata poltroncina in pelle. Carl, invece, se ne stava in
piedi e osservava le foto appese alle pareti.
“La vittima si
chiamava Greta Popovich.” Continuò Stevens. “Origini russe. Era
una prostituta, ecco perché era in giro in quella zona. Abbiamo
mostrato la foto alla buoncostume e l'hanno subito identificata. Era
stata fermata varie volte. Mi hanno anche detto che quella strada
secondaria è abbastanza popolare, come luogo di ritrovo.”
“Quindi
l'assassino è stato avventato, a ucciderla lì. Avrebbero potuto
vederlo altri uomini che cercavano una prostituta.”
“Il
coroner dice che questa volta ci ha messo meno delle altre volte, a
uccidere. Ha stretto molto forte il filo metallico e lei è morta in
un minuto, massimo due. Una volta uccisa, aveva solo da gettarle
sopra i sacchi e ripartire. Aveva buone probabilità che non passasse
nessuno, in così poco tempo.”
Carl annuì.
“E' efficiente,
il bastardo. E il camionista?”
“L'alibi è confermato. Era
lontanissimo dal luogo del delitto, quando la ragazza è stata
uccisa.”
“OK.” Disse Carl, poco sorpreso. “Adesso, che si
fa?”
“I miei ragazzi hanno cercato quella Olivia Reese. La
buona notizia è che risultava residente in questo stato, convivente
della madre. La cattiva notizia è che, poche settimane fa, dopo
l'ennesimo litigio, ha fatto i bagagli e se ne è andata. La madre
non sa dove si trovi, al momento.”
“Cazzo.”
“Non ti
preoccupare. Cercheremo le sue carte di credito, controlleremo i
registri degli hotel e un mucchio di altre cose. Salterà fuori.”
“E
se andassimo a parlare con la madre, intanto?”
“Se non salta
fuori nulla entro stasera, lo faremo. Ma preferirei non agitare
ulteriormente quella donna, se necessario. Ha ottantasei anni e ha
già avuto due infarti. Inoltre, non penso che servirà parlarci.
Questa Reese non mi dà l'idea di un genio criminale.”
Carl si
voltò a guardare lo sceriffo.
“Come fa a dirlo?”
Lo
sceriffo prese una delle lettere dal mucchio che gli aveva dato
Greysmith. Si schiarì la gola e iniziò a leggere, seguendo
minuziosamente la grammatica e la sintassi del testo.
Caro
Jimmy,
Tutti penzano che sei cativo, ma io sono l'unica ce ti
capisce.
Ti suplico, rispondimi questa volla.
Mi
manci,
Olivia
Carl
inarcò le sopracciglia.
“Sono tutte così?”
“Sì,
sebbene Olivia abbia quasi cinquant'anni. Sua madre mi ha riferito che
la bocciarono tre volte alle superiori, prima che mollasse. Non ha
mai avuto lo stesso lavoro per più di un anno. Il suo quoziente
intellettivo, se vogliamo fidarci di quei test, era risultato essere
70. La madre ha anche detto che era molto ingenua, apatica e che
aveva sempre avuto un'attrazione malsana per i tipi violenti.”
Lo
sceriffo tirò fuori un'altra cosa dalla busta. Era una polaroid.
Mostrava una donna dalle folte sopracciglia, il volto scavato e
l'espressione vacua. Il sorriso, che forse voleva apparire seducente,
non coinvolgeva minimamente i suoi occhi. I capelli grigi stonavano
incredibilmente con quel volto pallido, liscio e infantile.
L'effetto, in effetti, era inquietante.
“Inoltre, i miei agenti
manderanno questa foto in giro per tutto lo stato. Se qualcuno l'ha
vista, lo verremo a sapere.”
Carl annuì.
“Quindi lei crede
che si tradirà, in qualche modo.”
“Decisamente. Se si sta
nascondendo, penso che la troveremo. E, magari, lei neanche sa di
doversi nascondere. Potrebbe non c'entrare nulla con questi omicidi.
Ma potrebbe avere comunque qualche informazione utile.”
Il
ragazzo si sedette e prese in mano una delle matite che costellavano
la scrivania, passandosela distrattamente tra le dita.
“Va bene.
Quindi che facciamo, aspettiamo e basta?”
Stevens esitò, prima
di rispondere.
“In realtà, io avrei un'idea. Ma devi
promettermi che farai il bravo, se ti porto con me.”
“Dove
andiamo?”
“Da Mike Bueller. L'ex fidanzato di tua sorella.”
La
matita si spezzò tra le mani di Carl.
“Siamo
proprio sicuro che si trovi qui?” Chiese Carl. “Siamo in questa
macchina da quasi un'ora.”
“Questo lavoro funziona così. Ci
vuole pazienza.”
“Ma siamo sicuri che sia qui?”
“Sì.
Calmati, dovrebbe uscire a breve.”
I due osservavano l'edificio
dall'altra parte della strada. Il Centro Ricreativo era ben tenuto.
L'intonaco era stato rifatto recentemente, l'insegna sopra l'ingresso
era immacolata e i murales che ricoprivano la facciata erano
chiaramente stati una volontà dei gestori. C'erano due pugni alzati,
uno bianco e uno nero. Una colomba che portava un rametto d'ulivo. Un
fiocco rosa contro la violenza nei confronti delle donne. E altre
immagini positive, sebbene innegabilmente trite, di quel tipo.
Il
centro era stato fondato da una cooperativa sociale chiamata Better
Tomorrow, con l'aiuto di un parroco locale, Padre Harris. Per quello
che ne sapeva Stevens, era un buon progetto. Portavano cibo alle
famiglie povere, davano ai ragazzi dei quartieri poveri un luogo dove
giocare a basket, mettevano a disposizione libri e DVD, aiutavano
donne maltrattate. Inoltre, avevano una piccola sala prove, dove le
band locali potevano suonare gratuitamente, a patto che portassero
qualche genere alimentare per la dispensa del centro. Una delle band
in questione si chiamava Needle Hole e il loro chitarrista, ormai da
quasi tre anni, era un ragazzotto brufoloso e tarchiato di nome Mike
Bueller.
“Quanti anni ha, quell'idiota, ormai?” Chiese Carl.
“Ventitre?”
“Ventiquattro, stando al fascicolo.”
“E
suona ancora qui? Non è un posto per ragazzini?”
“Il centro
non fa di queste distinzioni, fintanto che la gente segue le loro
regole.”
Carl emise un grugnito.
“Non ti è mai piaciuto,
quel ragazzo. Vero?”
Carl scosse la testa.
“Mai capito che
cosa ci trovasse Kelly. E' un troglodita. Non so come trovi la strada
di casa, senza dei cartelli.”
“Trattava male tua
sorella?”
Carl annuì, sbrigativo.
“Sì.”
Ma Stevens
non si accontentò.
“Dimmi altro, Carl. Ti ho portato qui, me lo
devi.”
Carl sospirò.
“Va bene.”
Il ragazzo si passò
la mano sul viso.
“Quel Bueller le ruppe quasi il naso, una
volta. Le diede una sberla. Le uscì così tanto sangue che dovette
buttare il vestito. Era un bel vestito a fiori, bianco. Kelly lo
amava, lo indossava sempre.”
“Quando accadde?”
“Qualche
mese prima che Kelly morisse. Lei me lo scrisse per messaggio. Io
non- Io ero distaccato in Afghanistan.”
Stevens annuì,
aspettando il resto.
“Kelly
disse che l'aveva colpita perché, secondo lui, lei aveva fatto la
civetta con un altro.”
“Era vero?”
“Non glielo chiesi.
Non aveva importanza. Quel cazzone non aveva comunque nessun diritto
di toccarla.”
Lo sceriffo annuì.
“Sacrosanto.”
“Lei
lo lasciò poco dopo. Temevo che Bueller avrebbe fatto qualcosa di
stupido. Sa, gente così non è particolarmente brava a gestire il
rifiuto.”
Stevens annuì di nuovo.
“Ma Kelly non mi riferì
mai nulla. Disse che lui lo aveva accettato.”
“E tu ci
credesti?”
Carl scosse la testa.
“Non lo so. Non ci pensai
abbastanza, forse. Ora mi chiedo se non feci un terribile
errore.”
Stevens gli diede una pacca sulla spalla.
“Non ti
torturare, Carl. Siamo qui solo per un controllo. Il ragazzo potrebbe
non c'entrarci nulla. Anzi, credo che sia abbastanza probabile.”
“E
allora perché siamo qui?”
“Perché probabile non vuol dire
certo e io odio avere dubbi, per quanto piccoli.”
Il ragazzo
annuì.
“Mi pare giusto.”
La porta del centro si aprì. Ne
uscirono quattro ragazzi. Il più alto, con i capelli rasati più
corti di quelli di Carl e un sorriso ebete sul volto, era decisamente
il loro uomo.
“Eccolo. Come ci muoviamo?” Chiese
Carl.
“Seguimi e lascia parlare me. Sangue freddo, OK?”
“OK.”
I
due uomini uscirono dall'auto, silenziosi.
Il volto di Carl era
rigido e pallido, come quello di un cadavere.
“Mike
Bueller?”
Il ragazzo si voltò, circospetto. Il suo sorriso da
ebete era sparito. Strabuzzò gli occhi, nel vedere la stella
appuntata sulla camicia di Stevens.
“Chi siete? Che volete? Io
non ho fatto n-”
All'improvviso, il ragazzo incrociò lo sguardo
freddo e sprezzante di Carl. Il volto gli divenne bianco come un
foglio di carta.
“Tu!”
Poi, sorprendendoli entrambi, si
mise a correre.
“Fermo! Fermo!” Urlò Stevens,
inseguendolo.
Carl gli venne dietro. Nonostante bevesse molto di
più, era anche molto più giovane e allenato. In pochi secondi,
superò lo sceriffo di qualche metro.
Bueller girò l'angolo,
infilandosi in un vicolo. Carl non gli si scollò di dosso. Stevens,
invece, dovette fermarsi a prendere fiato. Il petto gli faceva male e
il mondo sembrava girargli intorno.
“Cazzo...” Mormorò.
“Cazzo...”
“Ci penso io, sceriffo!” urlò Carl, che aveva
già imboccato il vicolo. “Non si preoccupi!”
Stevens annuì
distrattamente, sedendosi maldestramente per terra.
Cristo, era
un infarto?
Bueller correva con tutte le sue forze, ma era
grosso e lento e sgraziato. Non ci volle molto, prima che Carl lo
raggiungesse. L'ex soldato gli diede un calcio alla caviglia,
facendolo incespicare. Il ragazzotto cadde rovinosamente
sull'asfalto, con un grugnito di dolore e di sorpresa. Scivolò per
un paio di metri, in una scena degna di un vecchio film comico.
Incredibilmente, la chitarra che aveva sulla schiena non toccò il
suolo e rimase illesa.
Carl gli mise un piede sul polpaccio destro
e premette forte. Bueller urlò.
“Fossi in te, rimarrei lì
fermo a sanguinare e a pisciarmi addosso, Mikey. Ti conviene.”
“Cosa
vuoi? Che cazzo vuoi?”
Carl appoggiò l'altro piede sulla mano
destra del ragazzo. Non applicò molta pressione, ma il ragazzo trovò
comunque impossibile liberarsi.
“Cosa fai?”
“Ti è sempre
piaciuta la musica, vero Mikey?”
“Non chiamarmi così! Mi
chiamo-”
Carl iniziò a spingere sulla mano.
“Lo so come ti
chiami. Mikey. Ora rispondi.”
“”Sì! Sì, mi piace la
musica! E allora?”
Carl strinse i pugni.
“Cosa proveresti,
se ti venisse portata via? Se una qualche testa di cazzo egoista e
meschina decidesse che è suo diritto distruggere ciò che ami?”
“Non
capisc-”
Carl iniziò a stritolare la mano. Bueller si mise e
gemere dal dolore.
“Ora capisci? Potrei romperti la mano con
estrema facilità, Mike. Una frattura scomposta. Mesi di terapia e
probabilmente non suoneresti mai più come prima.”
“No! No, ti
prego!”
“Perché non dovrei? Tu a Kelly hai rotto il naso, non
è forse vero?”
“Non volevo, mi aveva fatto arrabbiare! E poi
non era rotto, era stata solo una sbe-”
Carl usò l'altro piede
per dargli un calcio al fianco destro.
“Ti capisco. Anche io
perdo il controllo, quando mi incazzo.”
“No, no! Ti prego! Mi
dispiace! Mi dispiace!”
Carl grugnì.
“ E di cos'altro ti
dispiace, Mikey? Cos'altro hai fatto?”
“Niente! Niente, lo
giuro!”
“Hai ucciso tu Kelly?”
“Cosa? No!” La
risposta era troppo sorpresa e spaventata per essere una recita. Era
troppo stupido per mentire con tale prontezza.
“E hai mai ucciso
qualcun altro?”
“No! No, lo giuro!”
Carl annuì,
pensoso.
“Va bene, diciamo che ti credo. Non sei un assassino,
sei solo un fottuto vigliacco che picchia le donne. E'
così?”
“Io-”
Carl stritolò di nuovo la mano.
“Dillo,
Mikey.”
“Va bene, va bene! Sì!”
“Sì, cosa?”
“Sì,
picchio le donne! Mi dispiace!”
Carl gli diede un altro calcio.
Bueller piagnucolò.
“E ora dimmi, Mikey. Perché non dovrei
comunque romperti la mano, anche se non sei un assassino?”
“No!
Ti prego!”
“E a me che cazzo me ne frega se mi preghi, Mikey?
Cosa cazzo vuoi che me ne freghi? Ti odio e hai picchiato mia
sorella. E ti tengo per le palle. Se voglio, posso farti del male.
Sono io quello con il coltello dalla parte del manico, stavolta. Non
sono una ragazzina con un vestito a fiori. Sono un ex-soldato
alcolizzato che non ha niente da perdere.”
“Ti prego... Non
farlo.”
Carl picchiò il tacco. Forte. Bueller urlò.
Il
piede di Carl, però, aveva colpito l'asfalto.
Il ragazzotto fissò
Carl, terrorizato.
“Non- Non mi hai rotto la mano.”
“No.
Ma tu l'avresti fatto, al posto mio. Vero?”
Bueller non disse
nulla.
“Proprio come picchieresti di nuovo una donna che ti fa
incazzare, vero?”
Di nuovo silenzio.
“Hai picchiato altre
fidanzate, dopo Kelly?”
Ancora, silenzio.
Carlo lo alzò in
piedi, con una forza stupefacente che prese completamente di sorpresa
Bueller.
L'ex-soldato lo fissò negli occhi, con uno sguardo di
ghiaccio. La rabbia sembrava uscire dai suoi pori, come un gas
velenoso o una nube radioattiva.
“Diventa una persona migliore,
stronzo.”
Qualche momento dopo, Stevens li raggiunse, ansimando.
“Carl! Cosa è successo?”
“L'ho preso sceriffo. Alla
fine, sì è fermato da solo. Lei sta bene? Non ha una bella
cera.”
“Tutto bene, grazie. Temevo fosse un infarto, ma è
solo la vecchiaia.”
Carl sorrise.
“Sarà comunque meglio
che si riposi.”
“Sto bene.” Lo sceriffo fissò i due
ragazzi. “Hai usato la forza bruta, Carl?”
“Certo che no.
Vero, Mikey?”
Bueller lo guardò, spaventato e arrabbiato. Poi
annuì.
“E' come dice lui. Mi sono fermato da
solo.”
“Dimostrando grande senso civico.” Disse
Carl.
“Perché sei scappato?” Chiese lo sceriffo. “Non so
quante serie TV guardi, amico mio, ma gli innocenti non scappano, di
solito.”
“Io- Io ho riconosciuto lui. Pensavo che volesse
picchiarmi.”
“Mi offendi, Mikey.” Disse Carl.
Stevens
fissò con attenzione Carl, che ricambiò lo sguardo con
un'espressione fredda e indecifrabile. Poi, guardò i vestiti di
Bueller, sporchi di polvere. Il suo sguardo acuto notò anche la mano
del sospettato, che aveva il chiaro segno di una suola ma sembrava
altrimenti illesa.
“Ne riparliamo dopo.” Disse lo sceriffo,
con tono duro. “Adesso andiamo in centrale.”
“Va bene.”
I
tre uomini si incamminarono.
Il sole iniziava a tramontare,
tingendo il cielo un rosa mozzafiato, impossibilmente bello e dolce.
Un'altra giornata volgeva al termine.
In centrale, Bueller
diede le stesse risposte che aveva dato a Carl.
No, non aveva
ucciso lui Kelly.
No, non aveva mai ucciso nessuno.
Stevens
gli credette. Inoltre, l'idiota fornì anche degli alibi, confermando
che non poteva essere stato lui a uccidere le ultime due vittime. Era
in sala prove, le notti degli omicidi. Molte persone potevano
confermarlo.
Non aveva mai avuto un albi di ferro per la morte di
Kelly (dormiva in camera sua, stando alla madre), ma sinceramente
l'assassino della ragazza aveva dimostrato un livello di abilità e
discrezione che lo sceriffo non riusciva ad associare al ragazzotto
scemo che sedeva davanti a lui nella stanza degli interrogatori. E il
suo istinto gli diceva che non c'entrava nulla.
Dopo un paio d'ore
di colloquio, lo fece tornare a casa. Gli venne in mente di dargli
del ghiaccio per la mano, poi ripensò alla storia del naso
sanguinante e del vestito macchiato e decise di non dargli nulla.
Che
ci pensasse la madre, a dargli del ghiaccio.
Ormai si era
fatta notte. Stevens e Carl sedevano nel salotto del poliziotto.
Entrambi bevevano ginger ale.
“Fuori di qui puoi fare quello che
vuoi, per quanto stupido.” Aveva detto il padrone di casa. “Sei
un uomo adulto, fai le tue scelte. Ma in casa mia, niente di più
alcolico di un caffè.”
Carl aveva accettato di buon
grado.
Bevvero in silenzio per un po', prima che Stevens si decise
a dire quello che gli frullava in testa da qualche ora.
“So che
lo hai minacciato, Carl.”
Carl non fece il finto tonto, ma si
limitò ad aspettare il seguito.
“Lo hai picchiato?”
“Non
userei queste parole.”
“Hai usato la forza fisica per
intimidirlo?”
“Sì.”
Stevens sospirò e appoggiò il
bicchiere vuoto sul tavolino.
“Non va bene, Carl. E' già
estremamente poco professionale che io ti porti in giro con me. Anche
con la scusa che mi fai da consulente. Se rifai una cosa del genere,
sarò costretto a cacciarti via a pedate. Mi dispiace.”
Carl
annuì.
“Mi dispiace, sceriffo. Non accadrà più.”
Stevens
lo fissò, cercando di decifrarne lo sguardo.
“Tu odi quel
Bueller, non è vero?”
“Sì.”
Stevens sospirò.
“E'
comprensibile, ma dovrò chiederti di controllarti, in futuro. Se
prendiamo l'assassino, chiunque sia, non posso rischiare che mandi a
puttane l'arresto mettendoti a picchiarlo. Chiaro?”
“Lo
so.”
“E bada, Carl. Non ti permetterò neanche di ucciderlo,
se è per questo. Lo so che è questa la tua intenzione. Non sono
stupido.”
“Mai pensato che lo fosse.”
“Non ti
permetterò di farlo per due motivi. Il primo è il più importante,
per me. Ovvero, non voglio che ti distruggi l'anima facendo una cosa
del genere.”
“Sceriffo, ho già ucci-”
“No, ascoltami.
So che hai ucciso gente in guerra. E so che lascia il segno, Carl. Ho
ucciso anche io persone durante il mio servizio come poliziotto. Te
ne rendi conto, vero?”
Carl non disse nulla.
“Ma farlo per
vendetta, in modo così calcolato? No. Ho bisogno di credere che sia
diverso. E credo che sia peggio. E non voglio che tu diventi il tipo
di persona che fa una cosa del genere. Non saresti diverso da certe
persone che ho arrestato. Sei migliore di questo e devi rimanere
tale.”
Carl sorrise.
“Mi dà troppo credito, sceriffo.”
“E
tu te ne dai troppo poco.”
Carl sorrise di nuovo.
“Dovremo
concordare di essere in disaccordo, temo.”
“Non sono
d'accordo.”
I due uomini risero.
“E ora? Che facciamo?”
Chiese il ragazzo.
“Ora troviamo quella Olivia Reese. E' la pista
migliore che abbiamo. Sinceramente, dubito che sia l'assassino. Ma
magari lo conosce. Se quello non porta a nulla, interrogheremo
qualche altro ragazzo che girava intorno a tua sorella.”
Carl
annuì, pensoso.
“Qual è l'altro motivo?” Chiese dopo qualche
momento. “Per quale altro motivo non dovrei uccidere
l'assassino?”
Stevens sbuffò.
“Mi pare ovvio. E' troppo
facile, cavarsela così. Quel bastardo deve marcire in galera. Deve
avere tutto il tempo di rimpiangere gli orrori che ha commesso.”
Carl
sorrise.
“Allora non è animato solo da nobili principi,
sceriffo. Un po' di soddisfazione la trae anche lei, dal punire
queste persone.”
Stevens si rabbuiò momentaneamente.
“Cerco
di essere un brav'uomo, Carl. Non sono un cazzo di santo.”
Per
alcuni minuti, i due non dissero più nulla.
“Beh, sarà meglio
che vad-”
Le parole di Carl furono interrotte dal suono del
telefono.
I due si guardarono, preoccupati. Stevens guardò il
proprio orologio. Era l'una di notte.
“Sarà lui?” Chiese
Carl.
“Penso proprio di sì.”
Lo sceriffo sollevò la
cornetta e attivò il vivavoce.
“Pronto?”
“Buonasera,
sceriffo.” Disse l'odiata voce distorta.
“Che cosa vuoi?”
La
voce rise.
“Suvvia, non sarebbe ora di diventare amici?
Dopotutto, frequentiamo gli stessi posti. Passiamo il tempo con le
stesse donne.”
“Piantala.”
La voce sospirò, ma il tono
era divertito. Persino con la distorsione, era palese.
“Va bene,
va bene. Mi dica, il signor Riley è lì?”
Stevens e Carl si
guardarono.
“Perché vuoi saperlo?”
La voce rise.
“Sì,
è lì. Ottimo. Volevo solo chiedergli come sta.”
Carl guardò
lo sceriffo con espressione interrogativa. Stevens annuì, facendogli
segno che poteva rispondere.
“Io sto una meraviglia, grazie.
Vuoi venire qui, scambiare due chiacchiere di persona?”
La voce
rise nuovamente.
“Lei ha spirito, signor Riley. Non si fa
mettere i piedi in testa, vero?”
“Non da gente come te,
no.”
Stevens gli fece segno di non scaldarsi, alzando una
mano.
“Bella risposta.” Disse la voce. “Lei mi piace. Anche
sua sorella era così, era un tipo tosto.”
Carl strinse la
mascella.
“Ma essere tosti non basta, per sopravvivere. E' morta
lo stesso, come tutte le altre.”
“Ora basta.” Disse Stevens.
“Io riattacco.”
“Kelly però è stata una di quelle che ha
combattuto di più, devo ammetterlo.” Disse la voce.
“Cosa
vuoi dire?” Scattò Carl.
“Beh, ricordo che quasi mi scappò.
Mi sorprese con una mossa di judo. O forse era karate, non so. Un bel
colpo, comunque. Quando la presi alle spalle, cercò di tirarmi il
braccio e di buttarmi a terra. Fu una cosa molto rapida, molto
istintiva. Qualcuno doveva averglielo insegnato.”
Carl sbiancò.
Stevens non disse nulla.
“Fu lei, signor Riley? Insegnò a sua
sorella come difendersi? Voleva che potesse badare a sé stessa,
mentre lei era dall'altra parte del mondo e la lasciava sola nei suoi
problemi? Immersa fino al collo nella droga e nei ragazzi che
volevano scoparsela? La fece sentire a posto con la coscienza,
insegnarle quella stronzata prima di scappare in Iraq o in
Afghanistan?”
Carl tremava dalla rabbia.
“La fece sentire
un bravo fratello maggiore? Carl?”
Carl aprì la bocca, gli
occhi pieni di furore, ma fu preceduto dal rumoroso e irritante beep
del telefono. La chiamata era stata interrotta.
Carl strinse i
pugni ed emise un grugnito di frustrazione. Stevens temeva che
avrebbe preso a calci qualcosa, invece il ragazzo crollò in
ginocchio. Il suo respiro era accelerato e irregolare.
Lo sceriffo
si accorse, con un certo shock, che Carl stava piangendo. Vedere un
uomo così duro piangere era uno spettacolo strano e
spaventoso.
“Carl...”
Con una certa esitazione, Stevens gli
mise una mano sulla spalla. Il ragazzo non la respinse, il che sembrò
un buon segno.
“Carl...”
“Lui sa, sceriffo.” Disse il
ragazzo, tra le lacrime. “Chiunque sia, sa cose che non dovrebbe
sapere.”
“Quella mossa di cui ha parlato? E' veramente
qualcosa che insegnasti a Kelly?”
Carl annuì, scosso dai
singhiozzi.
“Io- Io- Io le avevo insegnato alcune cose. Volevo
che sapesse difendersi. Io-”
Carl si mise a ululare dal
dolore.
“Dovevo proteggerla! Dovevo essere lì! Era compito
mio!”
Lo sceriffo gli strinse la spalla. Forte.
“Carl. Non
è colpa tua. E' colpa di quel mostro. Chiunque sia. E noi lo
troveremo.”
Ma Carl non sembrò ascoltarlo. Si afflosciò sul
pavimento, completamente divorato dal proprio dolore. Lo faceva
sembrare piccolo e senza ossa, una membrana floscia che conteneva
un'angoscia troppo grande da essere espressa a parole.
Stevens
pensò che forse gli faceva bene. Che forse si era tenuto quelle
lacrime dentro per troppo tempo. Ma chi poteva dirlo? Forse il
ragazzo piangeva così ogni notte, nella solitudine di casa sua,
sotto gli influssi dell'alcol. Le lacrime non guariscono un dolore
così profondo.
Alcune persone parlano di superare il dolore, di
rifarsi una vita. Ma sono puttanate. Uno impara a tenere a bada il
dolore. A conviverci. A ignorarlo il più possibile, tenendosi
occupati. Ma perdere qualcuno che si ama, che si ama davvero, è come
perdere un braccio. Puoi vivere la tua vita, lavorare, fare cose che
ti piacciono. Persino divertirti. Ma quando sei a casa, da solo,
senza nulla che ti distragga, ti ritroverai quasi sempre a fissare
quello spazio vuoto. Quel posto dove, una volta, viveva una parte di
te.
“Lo prenderemo, Carl. Mi senti? Lo prenderemo.”
Lentamente,
il ragazzo riprese il controllo. Si alzò a sedere e appoggiò la
schiena al divano. Gli occhi erano rossi, il viso coperto di lacrime
e muco.
Con incertezza alzò quegli occhi chiari, così simili a
quelli della sorella morta, e incrociò lo sguardo del poliziotto.
Poi, il suo viso si indurì. Divenne più risoluto.
Lo sceriffo
gli tese la mano e lo aiutò ad alzarsi.
“Prendiamo quel figlio
di puttana.” Disse il ragazzo.
“Prendiamo quel figlio di
puttana.”
La notte era calda e silenziosa. Le lucciole
svolazzavano pigramente davanti alla finestra, beatamente
inconsapevoli del dolore e delle promesse degli esseri umani.
FINE
CAPITOLO 4
I Racconti di Thomas
martedì 15 febbraio 2022
MANI SPORCHE - CAPITOLO 4
venerdì 20 agosto 2021
MANI SPORCHE - CAPITOLO 3
CAPITOLO 3: DUBBI
“Non le viene in mente nient'altro,
sceriffo?”
“No, signore. Vi ho detto tutto.”
I due agenti
federali lo fissavano, i loro volti colmi di trasparente antipatia.
“Quindi qualcuno che afferma di essere il vero assassino l'ha
chiamata due volte, nell'ultima settimana. E lei si è degnato di
dircelo solo ora, dopo la morte di una ragazza?”
Stevens chiuse
gli occhi e si passò la mano sulla barba. Era stanco. Era affamato.
Era spaventato. Ma, soprattutto, era veramente stufo di questi due
omuncoli in giacca a e cravatta. L'agente Jones, con quegli stupidi
baffoni da Stalin e l'acqua di colonia mefitica. L'agente Rogers, con
quel ridicolo riporto a coprirgli la pelata.
Aveva provato già
molte volte a mantenere rapporti cortesi con loro, ma non gli avevano
mai dimostrato molto rispetto. Era ufficialmente stufo di provare. La
vita è troppo breve per fingere che ci piacciano gli stronzi.
Lo
sceriffo riaprì gli occhi e fissò i due agenti.
“Non ve l'ho
detto prima, perché non c'erano prove che fosse davvero un individuo
pericoloso e sappiamo tutti e tre che non ero tenuto a dirvelo.
Sappiamo anche che mi avreste solo preso per il culo, se vi avessi
chiamato per una cosa del genere senza che ci fosse un cadavere di
mezzo. Ho documentato l'accaduto alla stazione, ho fatto quello che
dovevo.”
Ora Stevens si alzò in piedi e si rimise il cappello,
che fino a quel momento aveva tenuto educatamente in mano.
“Se
volete ancora fare gli snob arroganti con me, lo stupido sceriffo di
provincia, accomodatevi. Se volete continuare a odiarmi perché ho
preso Jimmy Chris prima di voi, datevi alla pazza gioia. Io ho sempre
cercato di collaborare con voi, anche se siete due teste di cazzo.
Ora, se permettete, me ne andrei a dormire.”
Si avviò verso la
porta, senza degnarli di uno sguardo.
“La fa sentire un
grand'uomo, non è vero?” Disse Rogers. “Aver preso Jimmy
Chris.”
Lo sceriffo non si voltò.
“No. Ho fatto solamente
il mio dovere. Ho fermato un mostro.”
“Ma se la voce al
telefono dice il vero, lei non ha preso il mostro giusto.” Disse
Jones. “Ha sbagliato.”
“Se ho davvero sbagliato, non è a
voi che devo chiedere scusa.”
Stevens uscì dalla stanza,
cercando di ignorare il martellante mal di testa che gli pulsava
nelle tempie.
Di nuovo nel Pensatoio. Che bellezza.
Stevens fissava le foto, con il voto
rigido e pallido.
“Cristo... Cristo...”
Non poteva essere
vero. Come poteva essere vero?
La ragazza si chiamava Christy
Nolan. Aveva ventisei anni e li avrebbe avuti per sempre. Il suo
volto era una maschera di puro terrore e agonia. Era circondata dal
proprio sangue. La gola era stata recisa da un cavo metallico. Una
morte dolorosa che doveva essere sembrata lunghissima.
Era tutto
familiare. Fin troppo familiare.
Lo sceriffo si concentrò su
un'altra foto. Era quella di un piccolo drago di plastica, di colore
rosso. Gli occhi verdi del piccolo rettile giocattolo sembravano
deriderlo.
“Come fai a saperlo, bastardo? Come fai a
saperlo?”
Nessuno avrebbe dovuto sapere del drago, a parte lui.
Ogni altra persona che avrebbe potuto saperlo era morta, ormai.
“Come cazzo è possibile...”
Qualcuno bussò alla porta,
facendolo sussultare.
“Sceriffo? Sono Weathers.”
“Accidenti,
mi hai fatto venire un colpo. Entra.”
Il suo vice entrò, con
sguardo preoccupato.
“Scusi, non volevo spaventarla. Volevo solo
chiederle... Sì, insomma, sta bene?”
“Sto bene, Weathers. Ti
ringrazio.”
“Ne è sicuro? Tutto questo è- Sarebbe troppo per
chiunque.”
“E' troppo. Ma sto bene, non preoccuparti per
me.”
Weathers annuì, poco convinto ma rispettoso.
“Posso
fare qualcosa per lei, sceriffo? Come posso aiutare?”
Stevens ci
pensò un attimo.
“A che ora è la conferenza stampa?”
“Alle
sette di stasera.”
“D'accordo. Voglio che fai una cosa per
me.”
“Mi dica.”
“Chiama il direttore Graysmith. Digli
che domani andrò da lui.”
“Al carcere?”
“Sì.”
“Io-
Certo, faccio subito.”
Weathers uscì dalla stanza.
Stevenes
fissò il vuoto per qualche istante, poi tornò a fissare quel
dannato drago rosso. Non per la prima volta in vita sua, si chiese
perché erano le cose brutte, quelle che sembravano tornare più
spesso da te.
Poiché c'era ancora qualche ora, prima delle
conferenza stampa, lo sceriffo decise di andare a mangiare un boccone
da Maggie. Anche quel giorno, era pieno di clienti. Del resto, era
una bellissima giornata.
Stevens si sedette al bancone, come
faceva sempre, togliendosi il cappello e ricambiando distrattamente i
saluti che gli rivolgevano altri clienti. Forse era una sua
impressione, ma molti dei loro sguardi gli sembravano spaventati,
pieni di dubbi. Non li biasimava, del resto. La notizia della ragazza
morta lo aveva scosso nel profondo ed era normale presumere che
sarebbe stato lo stesso per molti altri suoi concittadini.
Erano
tutti convinti che quell'orrore fosse stato finalmente sepolto,
insieme al corpo di Jimmy Chris. Invece era tornato. Come un orribile
zombie, non sembrava poter essere ucciso davvero.
“Sceriffo!”
Lo accolse Maggie, col suo solito sorriso smagliante. “Che cosa le
preparo di buono?”
“Ciao, Maggie. Per favore, potresti darmi
un panino al pollo e una bi-”
Stevens si fermò.
“Sì,
sceriffo?”
“Un panino al pollo e del succo d'arancia, per
favore.”
“Arrivano subito!” Rispose lei con un
occhiolino.
Lui le sorrise, ma era un sorriso forzato.
Una
birra. Aveva quasi chiesto una birra. Gli era uscito fuori da solo,
per distrazione. Una cosa del genere non succedeva da anni. Si era
illuso di aver sconfitto definitivamente automatismi del genere. Ma,
per l'appunto, le cose brutte non sembrano andarsene mai davvero.
Si
passò le mani sul volto. Dio, com'era stanco.
Venti minuti
dopo, Maggie venne a prendere il piatto vuoto.
“Come sta oggi,
sceriffo?”
“Tutto OK, grazie. Tu?”
Lei fece spallucce,
con un sorrisino dolce ma stanco.
“Tiriamo
avanti.”
“Già.”
Maggie si fece seria, studiandolo con
quei grandi occhi chiari.
“Davvero, sceriffo. Come sta? Quella
ragazza morta... Deve essere stato orribile.”
Lui annuì, senza
commenti. A essere sinceri, non gli andava molto di parlarne. Lo
aspettava una lunga conferenza stampa dove avrebbe dovuto discuterne
anche troppo.
Lei parve capire e non insistette.
“Vuole un
dolce?”
“No, grazie. Sono pieno come un uovo.”
Lei gli
sorrise, con aria triste.
“In realtà, se posso permettermi, ha
l'aria sciupata.”
“Puoi permetterti, ma non serve che ti
preoccupi. Perdere un paio di chilo può farmi solo che
bene.”
Strevens si alzò e si rimise il cappello, porgendo a
Maggie i soldi del conto.
“Grazie mille, era tutto buonissimo.
Ora devo andare.”
“Si riguardi sceriffo, mi
raccomando.”
“Anche tu, Maggie. Stammi bene.”
Stevens
uscì dalla porta, inconsapevole dello sguardo amorevole e
preoccupato che lo seguì fino alla macchina.
Di nuovo la
centrale di polizia. Lo sceriffo guardò il proprio orologio: erano
le cinque e mezza. Novanta miseri minuti lo separavano dalla
conferenza stampa.
“Che bellezza...”
Se c'era una cosa che
lo metteva di malumore, ogni volta e senza eccezione, era ritrovarsi
circondato da giornalisti rompiscatole che cercavano di mettere a
nudo ogni sua minima mancanza o facevano stupide speculazioni su
indagini di cui sapevano poco o niente. E, quel giorno, era già
abbastanza di malumore senza bisogno del loro aiuto.
Scese dalla
macchina e la chiuse a chiave, poi si diresse, senza entusiasmo,
verso l'entrata.
“Sceriffo, aspetti!”
Si voltò,
incuriosito. Carl Riley veniva verso di lui, a passo spedito.
“Carl!
Buon pomeriggio. Cosa ti-”
“Ho sentito di quell'omicidio.”
Lo interruppe il ragazzo. Il suo sguardo, notò Stevens, era
assolutamente spiritato, quasi folle. Le occhiaie intorno a quegli
occhi allucinati dicevano che il ragazzo non aveva dormito. I piccoli
capillari esplosi sul suo naso e sulle sue guance dicevano che aveva
bevuto tutta la notte. E tutte le notti precedenti,
probabilmente.
“Ah, sì...” Rispose lo sceriffo, esitante.
“Stiamo indagando, Carl. Non sappiamo-”
“Gira voce che
l'omicidio sia come quello di Kelly e delle altre. Come quelli
commessi da Jimmy Chris.”
Stevens sospirò.
“Non posso dire
troppo, Carl. Ma sì, ci sono notevoli analogie.”
“Gira anche
voce che lei abbia ricevuto una telefonata. Da qualcuno che afferma
di essere il vero assassino. Non solo di questa ragazza, ma di tutte
le altre venute prima.”
“E tu come lo-”
“Le notizie
girano sempre, sceriffo. E io so ascoltare. E' vero? Ha ricevuto
quella telefonata?”
Si fissarono in silenzio, per alcuni
istanti.
“Sì.” Rispose semplicemente lo sceriffo. “L'ho
ricevuta.”
“E cosa ne pensa? Crede che possa dire il vero?”
Lo
sceriffo esitò, poi guardò Carl negli occhi. Trovò che gli
risultava difficile. Si vergognava, forse? Sì, si vergognava.
Guardare gli occhi di quel ragazzo stanco e sofferente lo faceva
sentire male.
Quel ragazzo che aveva perso una sorella. Quel
ragazzo rimasto solo. Quel ragazzo che cercava inutilmente di
disinfettare le proprie ferite con litri e litri d'alcol.
Quel
ragazzo a cui aveva promesso di prendere l'assassino.
“Le prove
contro Chris erano schiaccianti, Carl. E ha confessato. Lo sai meglio
di me.”
Carl strinse i pugni, barcollando leggermente.
“Non
è quello che le ho chiesto, sceriffo. Lei pensa che l'uomo al
telefono dicesse il vero? E' possibile? Chris era innocente? Si è-
Ci siamo sbagliati?”
Stevens lo guardò negli occhi. Si sforzò
di farlo.
“E' decisamente improbabile.”
Carlo lo studiò a
lungo. Il suo volto divenne pian piano più triste. Una dolorosa
combinazione di dolore e sorpresa. Era quasi insopportabile da
guardare. Carl era venuto lì per essere rassicurato, ma guardare
Stevens stava avendo su di lui l'effetto opposto.
“Lei ha il
dubbio, non è vero? Lei non è sicuro.”
“Carl...”
“Perché?
Perché ha il dubbio? Questo nuovo omicidio potrebbe essere
semplicemente opera di un imitatore, no? Non è la spiegazione più
ovvia?”
“Infatti.”
“E allora perché ha quella faccia?
Cosa, di quella voce, l'ha spaventata tanto?”
“Non è solo la
voce, Carl.”
Stevens non aggiunse altro. Non poteva.
“E
allora cos'è? Cosa succede?”
“Io- Mi dispiace, Carl. Non
posso parlare di un caso aperto. Ora, se permetti-”
Fece per
voltarsi, ma Carl gli mise una mano sulla spalla. Non strinse, non fu
un gesto violento. Fu un gesto delicato, da amico.
“Sceriffo, la
prego. Mi parli.”
Stevens sospirò, questa volta realmente
incapace di ricambiare lo sguardo del ragazzo.
“Scusami, Carl.
Non posso. Non posso.”
Detto questo, si diresse verso l'entrata
della stazione. O, per meglio dire, scappò.
Carl non disse nulla.
Rimase semplicemente lì, in piedi, con lo sguardo ferito e perso nel
vuoto.
Sopra di lui, il cielo estivo splendeva. Meravigliosamente
blu, incredibilmente vasto e assolutamente indifferente.
La
conferenza non fu brutta come aveva pensato. Fu peggio.
Mai, in
vita sua, aveva avuto tanta voglia di mandare tutti i giornalisti al
diavolo. Una parte di lui, la parte più stanca e spaventata, ebbe
quasi il folle impulso di sparare in aria per liberarsi di quei
rompicoglioni. Ma, ovviamente, non lo avrebbe mai fatto. Invece,
mantenne la calma e rispose a tutte le domande, ignorando il
crescente senso di angoscia che gli andava crescendo nel petto.
“E'
possibile che vi siate sbagliati, sceriffo?” Chiese
qualcuno.
“Tutte le prove puntano nella direzione opposta.”
Rispose semplicemente lui.
“Quindi lei pensa che si tratti di un
copycat?” Chiese qualcun altro.
“E' la spiegazione più
probabile, sì.”
“Cosa ha da dire, invece, a chi afferma che
la polizia ebbe troppa fretta di chiudere il caso?”
“Ridicolo.
Ci vollero anni per prendere Chris. Fu un'operazione lunga ed
estenuante. Non fu una soluzione facile, fu semplicemente la cosa
giusta. Facemmo il nostro lavoro. Seguimmo le prove.”
“Cosa ci
può dire della voce al telefono, invece? Cosa le ha detto?”
“I
dettagli di quella conversazione sono parte dell'indagine. Non
possiamo rivelarli.”
“Sceriffo, lei si è sempre espresso
contro la pena di morte, non è forse vero?”
“Sì.”
“Come
la fa sentire, l'idea che forse avete ucciso un uomo innocente?”
A
Stevens venne quasi da ridere, di fronte all'assurdità e alla
scorrettezza di quella domanda. Come si faceva a chiedere una cosa
del genere. Ma lo sceriffo tenne duro e fece un lungo respiro, prima
di rispondere.
“Come pensa che mi faccia sentire? Già non mi
rende felice l'idea di uccidere l'uomo giusto-”
Si interruppe
per un secondo, rendendosi conto di aver inconsciamente citato la
voce al telefono, usando quella definizione. “Figuriamoci se
avessimo giustiziato quello sbagliato. Ma non ci sono prove per
credere che Jimmy Chris fosse innocente, al momento. E ci sono molte
prove che dicono l'esatto opposto. Quindi invito tutti ad aspettare
l'esito delle indagini e a non fomentare il panico.”
Andò
avanti così per altri quindici minuti. Domande ugualmente idiote, se
non peggio.
Poi, sia lodato Dio per i piccoli favori, i
giornalisti se ne andarono e Stevens fu finalmente libero di tornare
a casa sua. Aveva visto abbastanza persone, per quel giorno. E
sentito abbastanza idiozie.
Guidò appena sotto il limite di
velocità, cercando di ignorare la gran voglia di alcol che gli aveva
riempito la mente nell'ultima ora. Si sentiva come se avesse smesso
di bere solo il giorno prima. Fragile. Stanco. E, soprattutto,
spaventato. Profondamente spaventato.
Le sue gambe sembravano
di marmo. La sua testa pulsava più che mai. Barcollando, si lasciò
cadere sul divano. Chiuse gli occhi ed emise un grugnito che
esprimeva allo stesso tempo frustrazione, angoscia e stanchezza.
“Che
cazzo di giornata...”
Avrebbe dovuto mangiare, ma non aveva la
minima fame. Avrebbe dovuto darsi una lavata, ma non ne aveva la
minima voglia. Tutto quello che voleva, era un drink. Uno scotch
sarebbe stato l'ideale. Magari un paio.
Voleva solo andare al
market di fronte, comprare una bottiglia di quello buono e sbronzarsi
come si deve, come ai vecchi tempi.
Come lo voleva...
Del
resto, perché no? Chi glielo vietava? Era un uomo, no?
Oh, sì
era un uomo. Un uomo anziano. Un uomo solo. Un uomo triste. Un uomo
che se la faceva addosso dalla paura. Cosa aveva da perdere, un uomo
così?
Ma aveva promesso. Aveva promesso.
“Cazzo!”
L'imprecazione avrebbe dovuto essere furente, invece gli uscì fuori
fiacca e lamentosa.
Lo sceriffo si stese sul divano e si tolse
maldestramente le scarpe.
“Oh, Mary. Mary...”
Chiuse gli
occhi, senza quasi notare le lacrime che gli colavano lungo le guance
e andavano ad accumularsi sui suoi folti baffi.
“Mi manchi,
Mary...”
Si addormentò così. Piangendo e pensando alla sua
dolce Mary, che non c'era più.
Era andata via, scomparsa per
sempre. Dove non si poteva più parlare con lei. Dove non poteva più
dargli il conforto che avrebbe desiderato. Dove non poteva più
dargli un parere sulle cose.
Quanto gli mancavano i pareri di
Mary. Il suo modo di mettere le cose in prospettiva, di vedere il
quadro complessivo...
Ma Mary non c'era più. Non aveva più
pareri su nulla. O, se li aveva, non poteva condividerli con lui.
Era
morta. Presa da questo mondo idiota e triste, che ora era ancora più
idiota e triste.
Presa.
Come Kelly Riley. Come tutte le altre
vittime. Come mille altre persone senza colpa.
Prese da Dio, prese
dall'universo, prese dal caso. Per un motivo che forse era
profondamente complesso e forse era profondamente imbecille.
Tutte
vittime. Vittime di un mondo dalle mani sporche.
Quando il
campanello iniziò a suonare nel bel mezzo della notte, il primo
pensiero intorpidito dello sceriffo fu che si trattasse dello squillo
di un telefono. Che l'assassino gli stesse telefonando di nuovo.
Lentamente, iniziò a rendersi conto di cosa stesse accadendo.
C'era qualcuno alla porta. Qualcuno che continuava a suonare il
campanello senza sosta. Guardò il proprio orologio nella debole luce
della luna e vide che erano le tre.
La confusione del sonno stava
sparendo velocemente. Stevens si fece vigile e si alzò in piedi,
estraendo la pistola. Con cautela, si avvicinò alla porta.
“Chi
è?” Chiese con voce decisa.
Il campanello smise di
suonare.
“Chi è?” Chiese di nuovo, stringendo più forte il
calcio della pistola.
“Sceriffo, sono Carl. Devo... Le devo
parlare.”
“”Carl? Che diavolo ci fai qui? Lo sai che ore
sono?”
Un momento di silenzio.
“Onestamente, no. Mi fa
entrare?”
Dopo un attimo di esitazione, Stevens mise via la
pistola e tolse il catenaccio alla porta, ritrovandosi faccia a
faccia con il ragazzo. Barcollava, aveva lo sguardo confuso e
sembrava avere difficoltà a mettere le cose a fuoco.
Era
chiaramente ubriaco.
“Carl... Non dovresti essere qui. Dovresti
essere a letto.”
“Non riesco a dormire molto bene,
sceriffo.”
“Quanto hai bevuto, Carl?”
Il ragazzo si passò
la mano tra i corti capelli.
“Mi fa entrare?”
Con un
sospiro, Stevens gli fece cenno di accomodarsi.
“Siediti un
attimo, Carl.” Gli disse, chiudendo la porta.
Il ragazzo scosse
la testa, sempre barcollando leggermente.
“No, grazie.”
“Quanto
hai bevuto, Carl?”
“Non ha importanza.”
“Quella roba ti
ucciderà.”
“Fosse vero. Ma non cerchi di sviare il discorso,
lei sa benissimo perché sono qui.”
Stevens lo guardò. Sì, lo
sapeva.
“Carl, te l'ho detto. Non posso rivela-”
“Basta,
sceriffo. La smetta. Sta succedendo qualcosa e io voglio sapere cosa.
Voglio capire.”
“Non posso, Carl.”
Il ragazzo lo guardò
a lungo. Stevens vide una grande rabbia, dietro a quegli occhi
arrossati. La rabbia si sciolse in una profonda, avvilita tristezza.
Lo sguardo di un uomo che convive con tanto, tanto dolore. Ma era
anche uno sguardo risoluto.
“Io la rispetto, sceriffo. Lo sa.
Ma.... Ma non mi tratti come un idiota. E non finga di non
conoscermi. Lei mi ha fatto una promessa, tempo fa. Se non ha preso
il vero assassino, sono disposto a perdonarla. Eravamo tutti convinti
della colpevolezza di Chris. Non la biasimo. Nessuno si è impegnato
più di lei, per questo caso. Ma voglio delle risposte ora. Perché
non crede che si tratti di un semplice emulatore? Perché ha così
tanta paura, cazzo?”
“Io-”
“Merito delle risposte,
sceriffo. E lei lo sa.”
Stevens sospirò, riflettendo. Infine,
prese una decisione.
“D'accordo, Carl. Ti dirò quello che
so.”
Il volto del ragazzo si sciolse, riempendosi di
sollievo.
“Grazie, sceriffo.”
“Ma a due condizioni.”
“Va
bene.”
“Prima di tutto, devi promettermi che rimarrà tutto
tra di noi. Me lo devi giurare.”
“Glielo giuro, sceriffo. A
chi vuole che lo dica?”
Stevens annuì.
“Va bene.”
“E
la seconda condizione?”
“La seconda condizione è che ti
siedi, che cazzo. E che ci beviamo un caffè insieme.”
Carl
sorrise leggermente.
“OK.”
Stevens mise le tazzine
sporche nel lavandino della cucina.
“Grazie, sceriffo. Era molto
buono.”
“Sono contento. Come ti senti?”
“Bene, non si
preoccupi.”
Stevens guardò il viso del ragazzo. Gli occhi erano
meno arrossati e non faticavano più per mettere le cose a fuoco.
Forse non era lo sguardo di una persona completamente sobria, ma di
certo era lo sguardo di una persona vigile.
“Sì, molto
meglio.”
“Comunque non serviva.” Disse Carl. “Avrei
comunque ricordato ogni parola, sceriffo. Non sono mai tanto ubriaco
da dimenticare le cose. La mia mente non si spegne mai.”
“E'
per questo che bevi così tanto, Carl? Vuoi vedere quanto alcol ci
vuole per spegnere la tua mente?”
“Forse. Lei è astemio,
vero?”
“Sì.”
“Da quanto?”
“Dodici anni.”
Carl
annuì, ma non aggiunse altro.
“Se vuoi, potrei darti una mano a
smettere. Potrei-”
Il ragazzo alzò la mano.
“Per favore,
sceriffo. Non mi interessa.”
Stevens annuì, con tristezza.
“E'
pronto a dirmi quello che sa, ora?”
Stevens si sedette su una
poltrona e guardò il ragazzo negli occhi.
“Ricorda la prima
condizione, Carl. D'accordo? Ti prego.”
“Ha la mia parola,
sceriffo.”
Stevens si passò la mano tra i capelli e sospirò.
“Hai sentito di cosa hanno trovato, vicino al corpo dell'ultima
vittima?”
“No. Che cosa?”
“Un drago. Un drago
giocattolo, di colore rosso.”
“E quindi?”
“E quindi, di
chiunque si tratti, sa qualcosa. Qualcosa che nessun altro, a parte
me, dovrebbe sapere.”
Era una fredda mattina di primavera,
quando fu trovato il corpo di Kelly Riley. Il cielo era sereno, un
timido azzurro con una sfumatura vagamente malinconica. L'aria era
così pulita e fresca da essere quasi dolorosa. Gli uccelli cantavano
con una frenesia incessante e quasi ansiogena, era come sentire la
più minuscola riunione di condominio del mondo.
Il cadavere era
stato trovato da una coppia che faceva jogging. La ragazza aveva
chiamato subito la polizia, mentre il suo fidanzato aveva vomitato ed
era poi svenuto per una decina di minuti.
Stevens era stato
anticipato sul posto dal proprio vice, che ai tempi era un uomo
corpulento e barbuto di nome William Betty. Willy, per gli amici.
Lo
sceriffo lo aveva raggiunto sulla scena del delitto. Il vice aveva
l'aria pallida, quasi nauseata.
“Buongiorno, Willy.”
“B-buongiorno, sceriffo Stevens.”
Insieme, avevano
osservato il cadavere. Kelly era circondata dal proprio sangue. I
suoi occhi erano sbarrati in un'espressione agonizzante che lo
sceriffo vedeva ancora nei propri sogni, qualche volta.
“Brutta
storia...” Aveva mormorato Stevens.
“Già.”
“Il coroner
dov'è?”
“L'ho appena sentito. Dovrebbe essere qui tra cinque
minuti.”
“Va bene. Tu hai notato qualche dettaglio
utile?”
“Io- No, niente.”
Lo sceriffo lo guardò in
volto.
“Sicuro?”
Il suo vice non sembrava essere in grado
di guardarlo negli occhi.
“Sì, sono sicuro.”
“Willy,
guardami.”
Il vice aveva alzato lentamente lo sguardo. Gli occhi
erano rossi, lo sguardo tremulo.
“Hai bevuto,
Willy?”
“Io...”
“Dannazione, Willy. Sono le otto del
mattino.”
“Mi dispiace, sceriffo.”
“Cazzo, Willy. Non
va bene così.”
“Mi dispiace, sceriffo. Io-”
“Vai a
casa, Willy.”
“Cosa?”
“Vai a casa. Non mi servi, in
queste condizioni. E non voglio che altri ti vedano in questo stato.
Vai, interrogherò io i due ragazzi che hanno trovato il cadavere.
Agli altri, dirò che hai l'influenza. Vai a casa, dormi, e non ti
azzardare a bere ancora. Almeno per oggi.”
“Io... Le chiedo
scusa, sceriffo. Mi dispiace.”
“Lo so. Ora vai.”
Il
coroner era arrivato poco dopo, facendo i suoi rilievi e constatando
dettagli scabrosi che lo sceriffo non ripete', mentre raccontava la
storia. Tanto Carl li conosceva fin troppo bene, ormai.
Tutti li
conoscevano fin troppo bene, ormai.
Verso le nove di quella
sera, Stevens aveva ricevuto una telefonata. Era stata una giornata
massacrante, e il giorno dopo lo aspettava una anche peggiore. Il
giorno dopo, sarebbe arrivato il fratello della vittima e avrebbero
dovuto spiegargli cos'era successo.
Sollevò la cornetta, tenendo
gli occhi chiusi.
Si aspettava brutte notizie. Le brutte notizie
sembrano sempre susseguirsi, in giornate del genere. Una tira
l'altra. E infatti, aveva ragione. Lo capì dal momento in cui Willy
aprì bocca.
“Sceriffo, sono Betty.”
“Willy. Come
stai?”
“Meglio. Cioè, la sbornia è passata.”
“Sarà
meglio.”
“Ma c'è... C'è una cosa che le devo dire.”
Stevens
sospirò.
“Che succede, Willy? Devo preoccuparmi?”
“Ho
fatto una sciocchezza, sceriffo. Una vera sciocchezza.”
“Dimmi
cosa hai fatto, Willy.”
“Potrebbe venire qui da me, sceriffo?
La prego.”
Lo sceriffo sospirò di nuovo.
“Arrivo.”
Sebbene
Willy fosse il suo vice, era in realtà l'agente più anziano, tra i
due. Ai tempi del primo omicidio, aveva ben 67 anni. Aveva
posticipato la propria pensione. Alla gente diceva che continuava a
lavorare perché amava il proprio lavoro, ma Stevens sapeva che era
una bugia. Willy continuava a lavorare perché lo terrorizzava
starsene a casa da solo. Solo con sé stesso, con i propri demoni e
con la bottiglia.
Era stato un uomo sposato, un tempo. Aveva una
bella moglie, un avvocatessa di nome Sharon. E un figlio, ormai
ventenne, di nome Jeffrey.
Purtroppo, però, l'alcol aveva
bruciato molto di ciò che rendeva Willy un bravo marito e un bravo
padre, per non dire un bravo poliziotto. E' per questo che era
rimasto un vice, invece di diventare il capo di Stevens.
Willy e
Sharon avevano divorziato da anni, ormai. Lei si era risposata, con
un altro avvocato. E Jeffrey non chiamava mai il padre e non lo
veniva mai a trovare.
Willy non era un violento, non aveva mai
alzato un dito contro la sua famiglia. Ma l'alcol aveva bruciato la
sua personalità, gli aveva tolto la dignità. Non stava dietro agli
affari di famiglia, non passava molto tempo con loro, a malapena ci
parlava. Pensava solo a bere. Alla fine, di lui non era rimasto più
nulla che la sua famiglia riuscisse ad amare o sopportare, e così lo
avevano lasciato solo con l'unica cosa che sembrasse importargli. La
sua stupida bottiglia.
Stevens sapeva bene cosa volesse dire,
essere incatenato a quel vizio. Uscirne non era stato affatto facile,
per lui. Provava molta simpatia per Willy, e aveva sempre cercato di
aiutarlo. E proteggerlo.
E sapeva che a Willy dispiaceva
disperatamente aver distrutto così la propria vita. Incolpava solo
sé stesso.
Una dipendenza grave è come una malattia grave. Come
un cancro. Se non la si ferma, ti uccide. Ma, prima di finirti, cerca
di strapparti via la personalità. Ti rende un'ombra di te stesso. Ti
ruba la dignità. Se non si sta attenti, e se si ha molta sfortuna,
alla fine rimane solo un involucro per il proprio dolore e per il
proprio malessere. Si diventa, a tutti gli effetti, un'altra persona.
Una persona prosciugata.
Non rimane nient'altro. Nient'altro.
Lo
sceriffo si sedette sul divano di Willy. La casa era un disastro,
disordinata e deprimente. C'erano bottiglie vuote ovunque.
“Cosa
mi devi dire, Willy?”
Lo sceriffo non voleva girarci intorno.
“Io... Ho fatto una
stupidaggine.”
“Che cosa hai fatto, Willy?”
Il vice
sospirò.
“Io... Ho preso una cosa dalla scena del delitto.”
“Tu
COSA?”
Willy strinse gli occhi, iniziando a piangere.
“Ero
ubriaco. Ero confuso. L'ho visto lì, accanto alla vittima. E, non
so, mi sono convinto che fosse lì per me. Che fosse un segno. Mi
sono detto che probabilmente non c'entrava nulla con il delitto. Così
l'ho preso.”
“Di che cosa stai parlando, Willy? Dannazione,
cosa hai preso?”
Willy tirò su con il naso.
“Un- Un drago.
Un drago di plastica. Uno stupido giocattolo. L'ho preso e me lo sono
messo in tasca.”
“Cristo, Willy! Ma perché? Che cazzo vuol
dire, che hai pensato fosse un segno?”
Willy si asciugò gli
occhi con la manica.
“Jeffrey amava tanto i draghi, da bambino.
Ero confuso, ero ubriaco, ho pensato che fosse lì per me. Che glielo
avrei potuto regalare. Che mio figlio avrebbe ricominciato a
parlarmi, se- Se-”
Willy ricominciò a piangere. Stevens lo
fissò, con un misto di pena e impazienza. Poi, gli mise una mano
sulla spalla.
“Willy... Tuo figlio ha vent'anni, ormai... Un
drago di plastica che differenza avrebbe fatto?”
“Lo so, lo
so! Io... Ho fatto una cazzata...”
“Puoi dirlo forte. E ora,
il drago dov'è?”
“Era- Era sul tavolo.”
“Che vuol dire
che era sul tavolo? Ora dov'è?”
“Io- Quando mi sono
svegliato, l'ho visto lì e mi sono ricordato cosa avevo fatto. Così,
l'ho- L'ho-”
“Lo hai buttato via. Questo, mi stai
dicendo.”
Willy annuì, tirando su con il naso e senza rialzare
lo sguardo.
“L'ho gettato nel fiume.”
“Cristo,
Willy!”
Stevens si alzò in piedi, con la testa che gli
scoppiava.
“Cosa vuole fare, sceriffo? Vuole che faccia
rapporto?”
Stevens riflette' a lungo, prima di rispondere.
“Non
farai nulla, Willy. Domani tornerai a lavoro e continueremo le
indagini. Speriamo che non c'entrasse davvero nulla con l'omicidio.
Inoltre, smetterai di bere, almeno la mattina e di certo non sul
lavoro. Se ti vedo anche solo alticcio, mentre indossi quella divisa,
ti caccio io stesso a pedate. E' chiaro? Non scherzo.”
“Va
bene, sceriffo. Sono- Sono davvero desolato.”
“Lo so, Willy.
Cazzo, lo so. Razza di idiota.”
Poi lo aveva abbracciato,
lasciando che il vice piangesse a dirotto sulla sua spalla.
“Perché
lo ha protetto?” Chiese Carl, dopo un paio di minuti di
silenzio.
Stevens si passò la mano sul viso, arruffando i folti
baffi.
“Avrebbe potuto perdere la pensione, se quella storia
fosse venuta fuori. Era un uomo distrutto già così, quello lo
avrebbe ucciso del tutto. Questo, pensai. E pregai che il drago non
c'entrasse nulla con le indagini. Gli oggetti trovati vicino alle
vittime successive, mi hanno purtroppo smentito.”
“E il suo
vice non lasciò impronte sulla scena del delitto? Nessuno sospettò
mai nulla?”
“No. La coppia che trovò il corpo non notò il
drago. E, a quanto pare, Willy toccò solo il giocattolo.”
“E
Jimmy Chris non disse mai nulla, riguardo al drago?”
“No.
Disse di non ricordare se avesse lasciato qualcosa sulla scena del
primo delitto. Che non era sicuro.”
“Crede che fosse
sincero?”
“Io- Non lo so. Credo di sì. Ma non ne sono certo.
La mente di Chris era un mistero per tutti, lui incluso. Questo
credo.”
Carl annuì.
“Può essere. Oppure, non era
l'assassino di mia sorella.”
“E' possibile. Ora capisci perché
sono spaventato.”
Ci fu un momento di silenzio.
“Sceriffo,
lei crede che il drago avrebbe potuto aiutare le indagini?”
Stevens
si grattò la guancia.
“Non potremo mai saperlo con certezza. Ma
io credo di no. L'assassino lasciò indizi solo più avanti. Furono
quelli a condurci a Chris. Non era schedato, quindi delle impronte
sul drago avrebbero fatto poca differenza. Detto questo, occultare
una prova fu un errore imperdonabile. Un errore tanto mio, quanto di
Willy. Una cosa di cui mi vergognerò tutta la vita. Ma non credo che
le cose sarebbero andate molto diversamente, in ogni caso.”
“O
forse, è quello che vuole credere?”
Stevens lo
guardò.
“Forse.”
“Perché, se il vero assassino fosse
stato qualcun altro, o se Chris avesse avuto un complice, magari
quest'altra persona avrebbe avuto le impronte registrate. Magari il
drago ci avrebbe condotto da lui.”
“E' possibile. Ma non ci
furono mai prove che ci fosse più di un assassino, sulle scene del
delitto.”
Carl corrugò la fronte.
“Il drago. Il primo,
quello preso da Willy. Era rosso?”
“Non lo so. Non gli chiesi
mai il colore.”
Carl si mise a riflettere.
“Chris non
potrebbe averlo detto a qualcuno?”
“Immagino sia possibile, ma
non riceveva molte visite. E non scriveva a molte persone. E di certo
non venne mai fuori negli interrogatori o in un aula, di questo sono
certo. In ogni caso, domani andrò al carcere, a indagare sui suoi
contatti.”
“E lei è certo che Willy non lo abbia mai detto a
nessuno?”
“Non credo proprio che l'avrebbe fatto. E, comunque,
morì pochi mesi dopo. Cirrosi epatica. Alla fine, proteggerlo non
cambiò nulla. La sua vita era già finita.”
“Ma non è
impossibile che l'abbia detto a qualcuno, magari da ubriaco.”
“Non
posso escluderlo del tutto, no.”
“E lei? Lo disse mai a
nessuno?”
“Mai. Di questo sono assolutamente certo.”
Carl
annuì, meditabondo.
“Beh, allora vediamo di fare il quadro
della situazione.” Disse infine. “Per come la vedo io, queste
sono le possibili spiegazioni: Chris aveva un complice, con cui
magari alternava gli omicidi. Chris era un mitomane o era davvero
convinto di essere l'assassino, perché era pazzo. Chris era un
copycat dell'assassino originale, che ora vuole il riconoscimento.
Oppure è questo assassino a essere un copycat, uno nuovo, qualcuno
che forse conosceva Chris e ha voluto farle sapere che conosce i
dettagli del primo omicidio.”
Stevens annuì.
“Sì, è un
buon riassunto. Ma trovo improbabile che Chris fosse solo un
mitomane. Trovammo tracce della sua presenza su almeno due corpi. Era
lì, quantomeno in quei casi. Se non le ha uccise lui, le ha toccate.
Era parte della questione.”
Carl annuì.
“Quindi, come ci
muoviamo?”
“Ci?”
“Può giurarci, cazzo. Io andrò con
lei.”
“Carl, non sei un poliziotto.”
“Allora mi assuma
come consulente esterno. Con i miei trascorsi militari, può sembrare
credibile, no?”
“Carl-”
“Io indagherò, sceriffo. Che
sia con lei o senza di lei. Ma insieme, faremo un lavoro migliore. E
lei me lo deve, dopo avermi tenuta nascosta questa storia. Specie se
vuole che rispetti la prima condizione. Ora mi dica, come ci
muoviamo?”
“Ne parleresti a qualcuno, Carl. Davvero?”
“Come
ci muoviamo?”
Stevens sopsirò.
“Cazzo. Va bene. Domani
andremo insieme da Greysmith, al carcere. Cercheremo di capire se ci
sono persone che avevano un legame con Chris. E' il miglior punto di
partenza.”
“Va bene.”
“Potrebbe essere pericoloso,
Carl. Lo sai, vero?”
Carl sorrise, tra il divertito e
l'amareggiato.
“Cosa possono farmi, sceriffo? Cosa possono
farmi, che sia peggio di uccidere mia sorella o di quello che mi
faccio da solo, ogni notte?”
“Potrebbero ucciderti.”
Carl
rise, ma fu un suono senza gioia.
“Un'idea davvero
terrificante.”
“Non hai paura di morire, Carl?”
“No.
Sinceramente, no. E comunque, possono provarci, sceriffo. Ma, se
questo stronzo dice il vero, ha ucciso solo una dozzina di persone.
Io, in guerra, ne ho uccise almeno un centinaio. Non ne vado fiero,
ma il fatto rimane. Che ci provi. Che venga pure.”
“Non è la
stessa cosa, Carl. Tu non sei come questo- Questo mostro.”
Il
ragazzo lo guardò negli occhi. Lo sceriffo quasi indietreggiò,
vedendo il freddo, intenso furore che gli riempiva le pupille.
“No,
forse no. Ma sono un mostro anche io, ormai. E non mi interessa
essere altro. Voglio solo trovarlo. E farla finita.”
Stevens
voleva dire qualcosa. Qualcosa di rassicurante. O qualcosa che
smorzasse la terribile tensione che opprimeva la stanza.
Ma non
gli veniva in mente nulla.
FINE CAPITOLO
3
martedì 11 maggio 2021
MANI SPORCHE - CAPITOLO 2
CAPITOLO 2: PROMESSE
Lo sceriffo Stevens beveva il suo caffè,
ringraziando il dio misericordioso che aveva creato quella piantina
dai semi marroni. Aveva dormito sì e no quattro ore, la notte prima.
Già gli davano problemi le notti dopo le esecuzioni, figuriamoci se
poi si riceveva una telefonata come quella che lo aveva svegliato
alle tre del mattino.
“Sono l'uomo giusto.”
Così aveva
detto quella strana voce.
“Cazzate...” Borbottò Stevens,
sorseggiando il suo caffè.
Ovviamente, non sarebbe stata la prima
volta che un mitomane prendeva di mira la polizia. Cavolo, non
sarebbe stata neanche la milionesima. Eppure, non riusciva a
togliersi quella voce dalla testa. Innanzitutto era la prima volta
che qualcuno del genere lo chiamava a casa, il suo numero era privato
e lo dava a pochissime persone. Questo non gli piaceva affatto.
Inoltre, mitomane o meno, avrebbe dovuto denunciare la cosa alla
stazione e riempire una marea di stupide scartoffie.
Soprattutto,
però, lo preoccupava il brivido che gli aveva percorso la schiena.
La sensazione di star parlando davvero con qualcuno di pericoloso,
non un semplice mitomane.
“Cazzate...”
Le sue dita
battevano nervosamente sulla tazza. Gli impose di smetterla. Odiava
essere così agitato, lo faceva sentire patetico. Ma c'era poco da
fare, quella storia lo aveva scosso nel profondo.
L'idea che il
loro uomo potesse non essere stato Jimmy Chris, che il vero killer
fosse ancora in giro...
“Cazzate.” Disse di nuovo, cercando di
metterci più convinzione. “Chris ha confessato. C'erano le prove.
Era lui. Punto e basta.”
Si strofinò gli occhi, stravolto. Come
ogni giorno, malediceva e benediceva la promessa che aveva fatto a
Mary e a sé stesso, ormai nove anni prima. Era stata la cosa giusta
e gli aveva salvato il fegato, su questo aveva pochi dubbi. Però,
accidenti, quanto avrebbe bevuto volentieri un goccio di whisky, in
giornate come quella...
Finì il caffè e si diresse verso la
doccia, cercando pensare ad altro. Come succedeva spesso, la sua
mente si concentrò invece su sua moglie, morta per uno stupido
infarto ormai da dodici anni. La promessa l'aveva fatta alla sua
lapide, ma sapeva che lei l'aveva sentita ugualmente. E non era sua
intenzione infrangerla.
A Jimmy Chris aveva detto che forse
avrebbe bevuto una birra per lui, due sere prima, ma era stata una
balla. Era una cosa che diceva a ogni condannato a morte, quando li
andava a salutare. L'idea che qualcuno bevesse alla loro salute
sembrava fargli piacere e allo sceriffo non costava nulla dirlo.
Bere
davvero, invece, gli sarebbe costato molto. Troppo.
“Neanche un
goccio, Mary.” Sussurrò Stevens, aprendo l'acqua. “Neanche un
goccio.”
Pensò agli occhi della sua dolce moglie. Alle sue mani
callose, eppure delicate. Al modo in cui lo chiamava Danny. A come,
ormai, nessuno lo chiamasse più così...
Poi, si impose di
smettere e iniziò a spogliarsi.
I ricordi sono tra le cose più
belle che abbiamo, ma vanno tenuti a bada. Bisogna farli entrare
solo un po' per volta. La porta va richiusa subito. Perché se la
lasci aperta, entrano anche le ombre. E le ombre non sono tue amiche.
Le ombre vogliono solo farti del male.
Non poteva permettersi di
iniziare la mattina piangendo, quel giorno. C'era troppo da
fare.
Solitamente entrava in ufficio alle nove, se non c'erano
casi urgenti a cui lavorare. Questo gli dava ancora un'ora di
libertà, quindi decise di andare al diner di Maggie per delle uova
strapazzate e un po' di pancetta.
Come al solito, il posto era
pieno. Merito sia delle portentose abilità culinarie della
proprietaria che delle sue forme prosperose, evidenti anche sotto i
sobri vestiti da lavoro.
“Sceriffo Stevens, che bello vederla!”
La donna gli rivolse un sorriso smagliante. “Il solito?”
“Sì,
Maggie. Grazie.”
Stevens le sorrise e si sedette al bancone. In
meno di cinque minuti, gli arrivarono il piatto con la colazione e
una tazza fumante di caffè.
“Decaffeinato. Lo so che non le
piace berne più di uno, la mattina.”
“Sei un tesoro.”
“Oh,
lo so bene.”
Lei gli fece un occhiolino carico di significato,
poi tornò sui fornelli. Aveva chiesto allo sceriffo di uscire ben
tre volte, negli ultimi due anni. Molti degli uomini che
frequentavano il diner lo consideravano un pazzo per non aver mai
accettato, ma a lui poco importava. Maggie era una donna gentile e
molto attraente, ma lui non aveva alcun interesse a frequentare
qualcun altro, dopo la morte di Mary.
Inoltre, era troppo vecchio
per lei. Una mummia, che cazzo.
Mangiò le uova in silenzio,
assorto nei suoi pensieri.
“Sono l'uomo giusto.”
Quella
frase continuava a frullargli per la testa. C'era da impazzirci.
Un
ragazzo con i capelli molto corti e il volto affilato venne al
bancone con una banconota da dieci in mano. Aveva profonde occhiaie e
occhi molto tristi, nonostante il suo sorriso cortese.
“Grazie
per le frittelle, Maggie. Erano ottime.”
“Sono contenta.”
Rispose lei, accettando i soldi e andando a prendere il
resto.
“Buongiorno sceriffo.” Disse il ragazzo, con un cenno
rispettoso nella sua direzione.
“Buongiorno, Carl. Come
stai?”
Lui fece spallucce.
“Normale, direi. Lei?”
“Non
c'è male.”
Carl annuì, mettendosi in tasca il resto datogli da
Maggie.
“Lavori sempre da Murphy?” Chiese Stevens.
“Sì.
Mi trovo bene. Murphy è un tipo a posto.”
Stevens annuì.
Murphy era il proprietario della più grande discoteca locale ed era
davvero una brava persona, sorprendentemente. Carl faceva il
buttafuori per lui. Poteva sembrare mingherlino, ma era un
ex-militare con delle braccia di acciaio e apparentemente privo di
paura. Qualcuno diceva che era pazzo, e forse c'era del vero in
questo.
Una volta, Stevens era venuto a sedare un rissa nella
discoteca. Aveva visto con i suoi occhi Carl atterrare un uomo grosso
il doppio di lui, un energumeno ricoperto di muscoli e alto più di
due metri. Niente cazzotti, gli aveva semplicemente stretto le mani e
piegato le braccia verso il basso, freddo e inarrestabile come una
pressa idraulica. Alla fine, l'uomo si era messo a piangere e a
chiedere scusa, come un bambino.
Sì, era decisamente meglio non
fare incazzare Carl Riley.
“La saluto sceriffo. Stia
bene.”
“Anche tu.”
Il ragazzo uscì dal diner, avviandosi
verso la sua auto.
“Bravo ragazzo.” Disse Maggie. “Non è
vero?”
“Molto.” Confermò Stevens.
“E' stato forte a
rimettersi in piedi, dopo quello che è successo a sua
sorella.”
Stevens annuì. La donna lo guardò intensamente, con
i suoi grandi occhi grigi.
“Meno male che ha catturato Jimmy
Chris, sceriffo. Ringrazio Dio ogni sera, per questo. E sono sicura
che anche Carl lo fa.”
“Non penso che Carl creda in Dio,
Maggie.”
“Beh, senz'altro ringrazia lei. Ha catturato quel
mostro, proprio come gli aveva promesso.”
Stevens non disse
nulla. Non sapeva cosa dire.
Maggie esitò un attimo, prima di
parlare di nuovo.
“Carl c'era, sceriffo? A...
All'esecuzione?”
“No. Non so perché. Ma di certo era suo
diritto risparmiarsela.”
Lei annuì, con
convinzione.
“Probabilmente neanche io sarei voluta
andare.”
“Già.”
Rimasero in silenzio per qualche
momento.
“Maggie, Carl beve molto, quando viene qui?”
Lei
assunse un'espressione triste.
“Abbastanza. Non gli servo
alcolici prima dell'ora di pranzo, ma compensa alla grande nel
pomeriggio. E penso che beva parecchio anche a casa, da solo. Ma devo
dire che non sembra mai ubriaco. Lo regge bene.”
Stevens
annuì.
“Sì. Purtroppo, sì.”
Lo sceriffo si alzò in
piedi e prese fuori il portafogli.
“Dieci dollari. Tieni il
resto come mancia, va bene?”
“Senza farmelo dire due volte.”
Disse lei, con il tipo di sorriso caloroso che potrebbe facilmente
far innamorare un uomo. “Buona giornata, sceriffo.”
“Anche a
te, Maggie.”
Le parole sui moduli avevano ormai perso
qualsiasi significato. Stupidi termini di burocratese e codici
numerici senza senso si mischiavano davanti ai suoi occhi, dandogli
la nausea. Un terribile mal di testa gli scavava nelle tempie come un
uccellino che cerca di tirare fuori un verme dal terreno.
“Cazzo...”
Mormorò Stevens, massaggiandosi la testa.
Aveva quasi finito,
grazie a Dio. Era un'ora che riempiva quei moduli, documentando
minuziosamente la telefonata che aveva ricevuto la notte prima.
“Suvvia, sceriffo. Sicuramente era uno scherzo.” Gli aveva
detto Weathers, il suo vice. “Non serve che lo scriva. Non fa
niente.”
Ma lo sguardo severo di Stevens era stato sufficiente a
farlo tacere. Il caso Chris era stato troppo grosso, non si poteva
trascurare nulla. Probabilmente non era importante e quel verbale
sarebbe stato archiviato in una scatola polverosa per sempre. A lui
andava benissimo. Anzi, ci sperava con tutto il cuore. Ma se ci fosse
stato del vero o se comunque avesse avuto importanza per il caso, era
fondamentale scrivere tutto. Finché il ricordo era fresco nella sua
mente.
Finalmente, Stevens digitò l'ultima parola sulla sua
macchina da scrivere ed ebbe finito. Con un sospiro di sollievo,
impilò i fogli e li spillò. Poi mise il modulo compilato sulla
scrivania e guardò distrattamente il proprio ufficio.
Era una
stanza accogliente e luminosa. Lo sceriffo voleva solo cose che gli
ispirassero un atteggiamento positivo, lì dentro. Cose belle e cose
che gli ricordavano perché facesse quel lavoro.
C'era la sua foto
di sua moglie, ovviamente, in bella vista sulla scrivania. Accanto a
quella, una di lui e i suoi fratelli, tutti adolescenti o poco più,
mentre abbracciavano la loro piccola, caparbia madre. Che aria fiera
che aveva. Solo lei sapeva sembrare così dura e così gentile allo
stesso tempo. Sotto le vecchie chiappe stanche dello sceriffo, c'era
una morbida e spelacchiata poltroncina che ormai utilizzava da più
di quindici anni. Era sformata, sbiadita e meravigliosamente
comoda.
Sulla pareti, un po' di tutto. C'era un bellissimo quadro
di Van Gogh, raffigurante girasoli e un cielo tanto impossibile
quanto mozzafiato. C'erano lettere di ringraziamento e disegni
colorati datigli da varie famiglie nel corso degli anni. Encomi e
attestati vari. Infine, foto con vari pezzi grossi, compreso il
sindaco e il governatore (queste le teneva appese più che altro per
diplomazia, molte di quelle persone gli stavano cordialmente
antipatiche).
“Finito, capo?” Chiese Weathers, entrando nel
suo ufficio.
“Sì. E meno male, stavo per chiederti di venirmi a
sparare in testa.”
Il vice ridacchiò.
“E' proprio sicuro
che non vuole che le insegni a usare il computer? Risparmierebbe un
sacco di tempo.”
Lo sceriffo sorrise.
“Bill, io sono un
dinosauro. Lo sai. Quelle diavolerie non le capisco e mi fanno paura.
E le mie stupide zampette da tirannosauro non saprebbero neanche
digitare sulla tastiera. Lasciami morire nella mia ignoranza. Ormai è
tardi per imparare qualcosa di complesso come i computer, per
me.”
“Secondo me si sottovaluta.”
“Forse. O forse sono
solo pigro.”
Weathers sorrise.
“Ecco, a questo già ci
credo di più.”
“Bada a come parli.” Gli rispose Stevens.”Ti
mando a dirigere il traffico.”
Gli agenti della centrale
chiamavano quella stanza “Il Pensatoio”. Era dall'altra parte
del corridoio rispetto all'ufficio dello sceriffo ed era in tutto e
per tutto il suo completo opposto.
Era buia e sterile. Non aveva
finestre. La luce della lampadina a risparmio energetico era
impietosa e vagamente bluastra. I computer erano i più moderni nella
centrale, ma a nessuno piaceva usarli.
Le foto contenute in quella
stanza non erano appese alle pareti, non quando i casi erano stati
chiusi. Erano archiviate con attenzione, lontane dalla vista.
Quella
non era una stanza di riposo e non era una stanza per il lavoro di
tutti i giorni. Quella era una stanza per la roba brutta, quella
davvero brutta. Quella che nessuno dovrebbe fissare troppo a lungo.
Era la stanza per casi come quello di Jimmy Chris e delle ragazze
uccise. Era la stanza dove si cercavano i mostri.
“Il Pensatoio
è una stanza che non dovrebbe esistere.”
Queste erano state le
parole di Weathers, la prima volta che aveva dovuto lavorare lì
dentro. Lo sceriffo non avrebbe saputo dirlo meglio e si era limitato
a dargli una pacca sulla spalla. Weathers era un uomo buono e
semplice e aveva riassunto perfettamente la realtà dei fatti con
quelle poche parole. Il Pensatoio era una stanza che non sarebbe
dovuta esistere e veniva usata per indagare su cose che non sarebbero
mai dovute accadere.
Stevens infilò il resoconto della telefonata
in uno degli schedari metallici, insieme alle altre prove legate al
caso Chris. Poi, fece qualcosa per cui avrebbe rimproverato qualsiasi
suo agente: si mise a rimestare il passato. Prese fuori una delle
cartelle e guardò le foto. Quelle orribili foto che ormai conosceva
a memoria.
Quattordici donne, tutte giovani e carine. Tutte
strangolate con un filo metallico, fino a recidere la carotide. Tutte
lasciate in luoghi pubblici, con strani oggetti posti vicino al
cadavere. A volte un dado, a volte un cubo di rubik, a volte una
carta da gioco. Cose del genere. Roba poco costosa che si poteva
facilmente comprare in qualsiasi negozietto o stazione di servizio
del paese.
Nessuno aveva mai capito il significato di quegli
oggetti e Chris stesso, sebbene reo confesso e molto aperto riguardo
alle sue azioni, non aveva saputo dare spiegazioni. Semplicemente,
gli era venuto in mente di farlo. Così aveva detto.
“Ero come
un pittore che prova a disegnare qualcosa di nuovo” era stata la
sua dichiarazione. Inoltre, aveva sempre sostenuto di non ricordare
tutti i dettagli degli omicidi. Che si era sentito come ubriaco,
mentre uccideva le donne e disponeva i corpi.
Molti non gli
credevano, ma Stevens pensava che dicesse il vero. Qualunque cosa ci
fosse dentro quell'uomo, qualunque oscurità malvagia lo avesse
guidato, non era sempre presente. Era stata un mistero anche per
Chris stesso.
In un solo caso non erano stati trovati oggetti
vicino alla scena del delitto. Vicino al corpo della prima vittima,
abbandonata in un parco, non era stato trovato nulla. Solo foglie
autunnali e ghiaia. Forse qualche passante aveva rubato l'oggetto in
questione, aveva ipotizzato qualcuno. Chris, una volta arrestato,
aveva ammesso che quella donna era stata la sua prima vittima e aveva
affermato di non ricordare con certezza se avesse portato un oggetto,
quella volta. Gli sembrava di aver effettivamente portato un
giocattolo, ma non era sicuro. E non ricordava di che cosa si
trattasse.
In ogni caso, poco importava. Lo avevano preso.
Stevens
fissò il volto senza vita della prima vittima, Kelly Riley. Occhi
grandi e castani. Un volto affilato. Somigliava moltissimo a suo
fratello Carl.
Maggie aveva ragione, pensò lo sceriffo, Carl era
stato davvero forte a non impazzire del tutto, dopo quello che era
successo a sua sorella. Era stato un vero e proprio eroe, che
cazzo.
Il ragazzo era tornato di corsa dalla base militare,
completamente devastato. I due fratelli avevano perso i genitori
quando erano adolescenti e Kelly era tutta la famiglia che gli
rimaneva. Stevens ricordava bene i suoi occhi spiritati e il modo in
cui gli tremavano le spalle, quando lo aveva incontrato per la prima
volta. Ricordava come Carl gli avesse stretto la spalla, facendosi
promettete che avrebbero preso quel bastardo.
“Me lo prometta,
sceriffo! Me lo prometta, la prego!”
Mai fare promesse che non
sai di poter mantenere, diceva sempre sua madre. Ed era un ottimo
consiglio. Ma c'era così tanto dolore, nel volto di quel ragazzo.
Così tanto smarrimento.
Aveva promesso. E, due anni e tredici
vittime dopo, aveva pensato di aver finalmente mantenuto la
parola.
“Sono l'uomo giusto.”
Stevens sentì una fitta allo
stomaco, chiedendosi per la milionesima volta se la telefonata fosse
stata sincera. Se l'assassino fosse stato qualcun altro.
Era per
questo che Chris non ricordava tanti dettagli? Era un mitomane? O un
semplice complice?
Ma come poteva essere? I rilievi avevano
accertato che l'assalitore era uno solo. Avevano trovato il DNA di
Jimmy Chris sotto le unghie di una delle ultime vittime. Le sue
impronte sul mento di un'altra. Aveva confessato, cazzo!
Che fosse
stato così pazzo da essersi convinto di averlo fatto? Ma allora da
dove uscivano il DNA e le impronte? Come potevano essersi
sbagliati?
Stevens sentiva la testa che gli scoppiava. Mise via le
foto e chiuse rudemente lo schedario. Venire lì era stato un errore.
Uno stupido errore da novellino.
Si stava innervosendo per nulla.
Non c'era nessun motivo tangibile per credere che il caso fosse
ancora aperto. Quello al telefono non era il killer, era solo un
deficiente con un pessimo senso dell'umorismo.
Il killer era
stato preso. Era morto. Era finita. Punto.
“Cazzate...”
Borbottò, spegnendo la luce e uscendo da quel posto orrendo.
“Cazzate...”
Ma il suo tono era meno convinto che
mai.
Finalmente ora di tornare a casa. Lo sceriffo si lasciò
sfuggire uno sbadiglio, mentre spegneva le luci del suo ufficio e
chiudeva la porta a chiave.
“Sceriffo, vuole venire da me?”
Gli chiese Weathers, che lo aspettava all'uscita. “Io e gli altri
ragazzi facciamo un pokerino. Ho comprato anche del ginger ale per
lei.”
Stevens gli sorrise.
“Sei molto gentile, ma temo di
dover rifiutare. Sono sfinito, voglio andare a casa e dormire come un
sasso.”
Weathers si crucciò.
“Capito...”
“Se lo
rifate la settimana prossima, ci sarò.”
Il volto di Weathers si
illuminò.
“Davvero? Guardi che la prendo in parola!”
“Ci
sarò. E vi spennerò come polli.”
“Allora va bene.” Disse
il vice, con tono professionale. “E' libero di tornare alla sua
abitazione, signore.”
Stevens rise.
“Un bel sollievo.
Buonanotte, Weathers.”
“Buonanotte, sceriffo.”
Casa.
Esiste una parola più rilassante e accogliente?
Casa.
Il
luogo dove puoi abbassare la guardia e smetterla di tenere dritta la
schiena. Il luogo dove puoi permetterti di essere stanco. O, almeno,
così dovrebbe essere. Così era sempre stato per lui.
Lo sceriffo
Stevens si chiuse la porta alle spalle. In mano, teneva un cartone di
pizza. Il profumo aveva già riempito l'abitazione. Si tolse subito
le scarpe, con un grugnito di sollievo. Poi, appese la giacca e gettò
il cappello sul divano.
Non voleva altro che una bevanda fresca e
un pezzo di quella pizza. E magari qualche vecchio film in
televisione. Gli andava bene tutto, anche un western con quello
stronzo di John Wayne.
Un po' di pace, tutto qui. Era tutto il
giorno che non desiderava altro.
Mise la pizza sul tavolino, poi
andò verso il frigo. Aveva appena aperto l'elettrodomestico e preso
la bottiglia della limonata, quando il telefono di casa squillò.
“Oh,
ma andiamo!” Sbottò lo sceriffo. “Lo fanno apposta, non c'è
altra spiegazione...”
Andò verso il telefono, irritato. Aveva
ancora in mano la bottiglia, meravigliosamente gelida e
invitante.
“Pronto? Qui Stevens.”
“Salve,
sceriffo.”
Quella voce. Di nuovo quella voce.
Questa volta,
però, lui non era rintontito dal sonno. Non aveva intenzione di
stare al suo gioco.
“Le molestie telefoniche sono un reato,
testa di cazzo. E farle a uno sceriffo non è affatto un'idea saggia.
Smettila, prima che faccia rintracciare la chiamata e ti faccia
arrestare.”
La voce modificata rise, di gusto.
“Mi piace
quando si arrabbia. Ma sarebbe inutile, chiamo da una cabina
telefonica.”
“Buon per te. Ora, se non ti dispiace, devo
cenare.”
“Lei non mi prende sul serio, vero? O forse non
vuole.”
“Perché dovrei? Cos'hai di così speciale? Credi di
essere il primo mitomane con cui ho a che fare?”
“Mitomane.”
La parola fu ripetuta con un tono riflessivo, meditabondo. “Questo
crede?”
“Ci puoi giurare. Ora, se permetti-”
“L'angolo
tra Wilson e la prima.”
“Cosa?”
“L'angolo tra Wilson e
la prima.” Disse la voce, ora chiaramente arrabbiata. “Le ho
lasciato un regalo. Così vedrà che non sono un mitomane.”
Lo
sceriffo si grattò la fronte. Sentiva calore in volto. Era rabbia?
Paura? Probabilmente entrambe le cose.
“Ma chi sei?”
“Gliel'ho
già detto. Sono l'uomo giusto. E le prometto che si pentirà di
avermi sottovalutato, sceriffo.”
La chiamata fu
interrotta.
“Pronto? Pronto!”
Stevens riattaccò il
telefono.
“Cazzo...”
Doveva contattare la centrale.
Mitomane o meno, era stata fatta un segnalazione ed era suo dovere di
sceriffo contr-
Il telefono gli squillò in mano, facendolo
sussultare.
“Ma cosa... Pronto? Qui Stevens.”
“”Sceriffo.”
Era Weathers. “Mi dispiace disturbarla, ma-”
“Cos'è
successo?” Chiese lui, immaginando già la risposta.
“E'
stato... E' stato trovato un cadavere.”
Un orribile brivido,
violento come una pugnalata, attraversò la schiena dello sceriffo.
“Dove?”
“ Non molto lontano da casa sua. Tra Wilson
e-”
“La prima strada.”
Un attimo di silenzio.
“L'ha
chiamata di nuovo, vero?”
“Sì. Weathers... La vittima chi
è?”
“Non lo sappiamo ancora. Una ragazza. E' stata... E'
stata strangolata, sceriffo. Con un filo metallico, probabilmente. Le
ha reciso la carotide.”
“Cristo... Arrivo subito.”
“Sceriffo.
Un'altra cosa.”
“Dimmi.”
“Vicino al corpo, c'era
qualcosa.”
“Maledizione. Cos'è?”
“Un giocattolo. Un
piccolo drago di plastica.”
La bottiglia di limonata cadde a
terra, andando in mille pezzi e schizzando il suo contenuto
ovunque.
“Sceriffo? Sceriffo!”
“Sono qui, Weathers.”
“Sta
bene? Ho sentito un rumore.”
“Sì, tutto bene. Mi- Mi è solo
caduta una cosa.”
“Sta bene? La sua voce è strana.”
“Dammi
dieci minuti, Weathers. Arrivo.”
“Sì, ma-”
“Dieci
minuti.”
Lo sceriffo riattaccò e si passò le mani sul
volto.
“Un drago... Un drago...” Mormorò Stevens, parlando
alla stanza vuota. “ Cazzo, ma come fa a saperlo?”
La stanza
non aveva risposte, ovviamente. Non c'era più nessuno, in quella
casa, che potesse ascoltarlo o rispondergli.
Era solo.
FINE
CAPITOLO 2
MANI SPORCHE - CAPITOLO 4
CAPITOLO 4: LEGAMI Nonostante fossero le dieci del mattino, il caldo era soffocante. Una cortina umida che ti premeva sulle tempie, ti fac...
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Era quasi il tramonto. Una leggera brezza estiva faceva ondeggiare le foglie degli alberi che si ergevano davanti al carcere. Lo sceriffo St...
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CAPITOLO 4 UN AGO IN UN PAGLIAIO “Sempre accogliente.” Disse Selina, scendendo dalla moto e ammirando la caverna. Batman scese a...
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CAPITOLO 6 PUPAZZI “ Jervis Tech, ancora non ci credo...” Mormorò Gordon, mentre cercava di tenere il passo con Batman. Il cavaliere oscu...