martedì 15 febbraio 2022

MANI SPORCHE - CAPITOLO 4


CAPITOLO 4: LEGAMI

 

Nonostante fossero le dieci del mattino, il caldo era soffocante. Una cortina umida che ti premeva sulle tempie, ti faceva attaccare le mutande al culo e ti faceva grondare sudore dalle sopracciglia.
Viaggiavano in silenzio. Stevens al volante, Carl che guardava distrattamente fuori dal finestrino, con l'aria di qualcuno che non è particolarmente interessato a ciò che gli passa davanti.
“Dovremmo arrivare tra una decina di minuti.” Disse infine Stevens. “Il direttore Greysmith sa che stiamo arrivando.”
Carl annuì, pensoso.
“Com'è, il direttore? Lei ci ha mai parlato, sceriffo?”
“Puoi darmi del tu, Carl. A questo punto...”
“Non se la prenda a male. E' più forte di me. Le assicuro che è una questione di rispetto. Sarà anche una cosa che mi è rimasta dai tempi dell'esercito, immagino.”
Stevens sorrise.
“Ci credo. Ma mi fa sentire vecchio lo stesso.”
Carl sorrise leggermente, un sorriso che non coinvolgeva minimamente gli occhi.
“L'età è solo una questione mentale, sceriffo.”
“Cazzate.”
“Lo so.”
Ridacchiarono insieme.
“Comunque, ti dirò, Greysmith mi sta simpatico. La sera dell'esecuzione, mi ha fatto una buona impressione.”
“Meglio così.” Disse semplicemente Carl.
“Già.”
Viaggiarono per altri cinque minuti in silenzio, prima che Stevens avesse il coraggio di fare la domanda che gli frullava in testa da quando si era svegliato.
“Carl...”
“Sì?”
Il ragazzo si voltò e guardarlo, intuendo dal tono di voce dello sceriffo che era una questione importante.
“Carl... Se troviamo questa persona, e se viene fuori che è veramente stato lui ad uccidere tua sorella, cosa intendi fare? Che cosa vuoi, veramente?”
Carl ci riflette' a lungo, guardandosi le mani.
“Voglio guardarlo negli occhi.”
“E poi?”
“Per ora, ho pensato solo a questo.”
“Non ti credo.”
Carl sorrise di nuovo, sempre con quegli occhi freddi e distanti.
“No. In effetti, neanche io mi credo.”
Stevens sospirò.
“Siamo arrivati.”

Carl si guardò intorno con moderato interesse, mentre i due uomini attraversavano il corridoio che conduceva all'ufficio di Greysmith. Le pareti erano state riverniciate di recente, di un anonimo bianco. Questo non aveva nascosto del tutto le profonde crepe nell'intonaco, ma aveva senz'altro aiutato. Le piastrelle verdi su cui camminavano erano vecchie e spesso sbeccate, ma erano anche lucide e prive di macchie.
L'edificio mostrava chiaramente di essere in attività da un bel po', ma non cascava ancora a pezzi ed era ancora adeguato al suo compito. Un dignitoso servo dello stato, insomma.
Un po' come me. Pensò lo sceriffo, a metà tra il divertito e l'amareggiato. Era una combinazione di emozioni che provava più spesso di quanto avrebbe voluto ammettere.
A differenza di lui, però, l'edificio sembrava stare meglio del solito.
“Greysmith ha fatto dare una bella sistemata, qui dentro.” Disse lo sceriffo.
“Ah, sì?”
“Oh, sì. Quel ciccione bastardo che c'era prima teneva il posto come se fosse il manicomio di un film dell'orrore. Faceva abbastanza schifo, sinceramente. Un po' come lui. Ora non sarà un posto dove portare la famiglia per il pranzo di natale, ma è senz'altro meglio. Più pulito, più curato.”
Carl annuì, come sempre immerso nei suoi pensieri. O, forse, stava solo cercando di tenere a bada un feroce mal di testa post sbornia. Difficile dirlo.
“Là dentro, fai parlare me.” Disse Stevens, quando la porta fu a pochi metri da loro.“A meno che tu non venga interpellato direttamente. E anche in quel caso, cerca di essere conciso e di non esporti troppo. Va bene?”
“D'accordo.”
Arrivarono alla porta dell'ufficio. Stevens bussò delicatamente e attese una risposta.
“Avanti.”
Il direttore li accolse, alzandosi in piedi e porgendo subito la mano allo sceriffo.
“Sceriffo, buongiorno.”
“Buongiorno, direttore.”
“E' un piacere rivederla.” Disse Greysmith, con breve sorriso.
“Anche per me. Grazie di averci ricevuto così presto.”
“Si figuri.”
L'ufficio era modesto, ma estremamente ordinato. La finestra era piccola, ma illuminava perfettamente la sobria scrivania in mogano, dove fascicoli e moduli circondavano un computer dall'aria vecchiotta ma immacolata. Un quadernino era aperto vicino alla tastiera, pieno di appunti minuziosamente scritti. Non c'erano tracce di polvere, su alcuna superficie. Era l'ufficio di una persona che lavora sodo, e che va fiera del proprio lavoro.
Fuori dalla finestra, forse dal cortile sottostante, una cornacchia emise il suo verso sgraziato e prepotente. Come il cianciare di una vecchia comare che non può fare a meno di spettegolare ed è troppo sorda, o troppo stupida, per rendersi conto di star alzando la voce.
Poi, tornò il silenzio.
Il direttore porse la mano a Carl.
“Piacere di conoscerla, signor...?”
“Riley. Carl Riley.”
Gli occhi del direttore si dilatarono leggermene, illuminati dall'interesse e dalla comprensione.
“Ah. Capisco. E' un piacere conoscerla, signor Riley.”
“Anche per me.”
“Prego, sedete. Sedete.”
I tre uomini si sedettero. Greysmith dietro la sua scrivania, i due ospiti su delle attempate sedie spelacchiate di un orrido color cannella. Per una decina di secondi, che sembrarono minuti interi, i tre uomini si studiarono. Si studiarono, in effetti, come degli avversarsi che giocano a poker e cercano di non far traspirare alcuna emozione che possa fotterli proprio sul più bello.
“Allora, signori.” Disse infine il direttore. “Come posso aiutarvi, stamane?”
Fuori dalla finestra, la cornacchia urlò nuovamente, solo per un istante.
Poi, cadde di nuovo il silenzio, mentre lo sceriffo si chiedeva quale fosse il modo migliore di iniziare.

Ci vollero dieci minuti, per riassumere il tutto. Stevens non si stupì di constatare che il cuore gli batteva forte, verso la fine. Pigramente, si chiese quanti anni di vita gli stesse togliendo quella storia.
Il direttore si tolse gli occhiali e si strofinò gli occhi. In quel momento, sembrava più vecchio di almeno cinque anni. Il suo viso era pallido, fragile.
"Avevo sentito degli omicidi, naturalmente." Disse Greysmith. "Ma speravo che questa storia delle telefonate fosse solo un'invenzione macabra di qualcuno. Non immaginavo..."
Per un momento, non disse altro. Poi, alzò la testa e guardò Stevens negli occhi.
"Cosa posso fare per voi, sceriffo? Cosa vi serve?"
"Ci chiedevamo se potesse fornirci una lista delle persone che hanno visitato Chris, quand'era qui. Non aveva familiari rimasti in vita, ma pensiamo che forse questo nuovo assassino possa averlo incontrato mentre era detenuto qui."
Greysmith sorrise, con aria mesta.
"E' una buona ipotesi, ma temo di non avere nulla da dirvi."
"Mi rendo conto che potrebbe passare dei guai, per questo." Disse Carl. "Ma, la prego, ci serve-"
Greysmith sorrise di nuovo, questa volta con espressione gentile.
"No, signor Riley. Lei mi ha frainteso. Sarebbe assolutamente nei miei poteri dirvi chi lo ha visitato. E anche se fosse contro le regole, ve lo direi comunque. Non tollero l'esistenza di simili mostri. Ma non ho davvero nulla da dirvi. Nessuno ha fatto visita a Jimmy Chris, mentre era detenuto qui. Nessuno."
Carl sembrò afflosciarsi nella sedia.
"Nessuno?"
"Temo di no."
Stevens non fu sopreso di questa notizia, ma non si diede per vinto.
"Cosa ci dice della sua posta, invece? Riceveva molte lettere?"
Greysmith sospirò, colmo di disgusto.
"Oh, sì. Insulti, richieste di interviste per qualche blog e qualche minaccia di morte. E, ovviamente, un sacco di ammiratori. E ammiratrici."
"Ammira..." Carl inarcò le sopracciglia. "In che senso?"
"Non lo sapevi, Carl?" Disse Stevens, che aveva la stessa espressione disgustata del direttore. "I serial killer ricevono spesso lettere di ammiratori e ammiratrici. Gente che si eccita nel pensare di star parlando con un assassino, gente convinta che siano incompresi, gente che spera di sentire dettagli scabrosi dal diretto interessato..."
Lo sceriffo guardava il proprio cappello, mentre parlava.
"Una volta, mi dicevo che è solo il gusto del proibito. Che non sono brutte persone, in fondo. Ma ora... Non lo so."
Greysmith annuì.
"L'essere umano è strano e meraviglioso. Ma soprattutto strano."
Carl si passò la mano sui corti capelli scuri.
"Possiamo vedere le lettere ricevute da Chris?"
Greysmith lo studiò, con espressione seria.
"Non vedo perché no. In effetti, le avevo già preparate per lo sceriffo. Se lui garantisce per lei, signor Riley, non ho problemi a darvele."
"Garantisco." Disse Stevens.
Il direttore annuì, aprì un cassetto alla sua destra ed estrasse una pila di buste. Erano almeno una sessantina.
"Accidenti." Disse Carl. "Una vera rockstar."
Greysmith annuì.
"Il caso Chris fu enorme. Gli scrissero in molti. E, se posso darvi un consiglio..."
"Dica pure." Disse Stevens, con interesse.
"C'è una ragazza che gli scriveva spesso. Olivia Reese. Era letteralmente ossessionata da Chris. Credo che dovreste approfondire la cosa. Io, personalmente, partirei da lì."
"Gli scriveva spesso?" Chiese Carl.
"Oh, sì." Rispose il direttore. "Quasi una volta a settimana. Una vera fangirl."
"E Chris cosa pensava di lei, le ha mai risposto?" Chiese lo sceriffo.
"Solo una volta." Disse Greysmith. "All'inizio. Poi smise subito."
"Come mai?" Chiese Carl.
"La trovava inquietante." Disse il direttore, sorridendo. "Diceva che bisognava essere pazzi, per ammirare uno come lui. E che non voleva averci nulla a che fare. Le disse di lasciarlo in pace, perché lo spaventava."
I tre uomini risero, per metà divertiti e per metà basiti. La vita aveva senz'altro un senso dell'umorismo, ma la qualità era abbastanza discutibile.

Uscendo dall'ufficio di Greysmith, Carl si passò compulsivamente la mano tra i capelli corti. Era un gesto nervoso che Stevens gli vedeva fare spesso.
"Tutto bene?" Gli chiese lo sceriffo.
Il ragazzo si voltò lentamente verso di lui, con l'aria distratta di chi è perso nei suoi pensieri.
"Come? Ah, sì. Sì, tutto bene..."
Lo sceriffo teneva in mano le lettere. Toccarle, gli faceva quasi schifo, come se fossero contaminate dai germi della follia e della morbosità.
"Ora passeremo un attimo in centrale. Farò cercare questa Olivia Reese. Trovato il suo indirizzo, le andremo a parlare."
"Crede davvero che possa essere lei, sceriffo?"
L'uomo più anziano si carezzò i baffi.
"Non lo so. Solitamente, i serial killer sono uomini. In media, uomini bianchi sulla mezza età. Ma non sarebbe di certo la prima donna serial killer della storia. Le statistiche non sono certo delle regole scritte nella pietra."
Carl annuì. I due uomini si avviarono per il corridoio.
"C'è anche un'altra pista su cui vorrei indagare." Disse lo sceriffo, dopo qualche momento di esitazione.
"Ovvero?"
"Gli amici di Kelly."
Carl lo guardò, con quegli occhi così incredibilmente simili a quelli della sorella morta. Era quasi come essere osservato da lei, rifletté Stevens, con un leggero brivido.
"Amici?"
Lo sceriffo misurò le parole. Non voleva irritare il ragazzo, ma doveva anche essere chiaro.
"Kelly era una ragazza molto popolare, Carl. Lo sai. Aveva molti amici, e anche molti spasimanti. Questo non la rendeva una brutta persona, ma l'assassino potrebbe essere tra loro."
Carl inspirò, dando l'aria di voler calmare i nervi.
"Molti spasimanti, già. Fu quello che dissero i giornali, all'inizio. Se lo ricorda?"
Stevens annuì, serio.
"Mi ricordo."
Inizialmente, non c'era stato motivo per credere che si trattasse di un serial killer. Specie perché, a parte Stevens e il suo vice, nessuno sapeva del drago di plastica. Quindi, alcuni giornalisti avevano indagato sulla vittima e avevano tratto delle conclusioni molto frettolose, per non dire offensive.
Una ragazza che aveva perso i genitori quand'era adolescente, che faceva uso di alcol e di droghe, che aveva sempre molti maschi intorno a lei. Anche se non era mai stato detto espressamente, il sotto testo moralista di quegli articoli era chiaro: Kelly era una poco di buono, una sbandata. E quel tipo di ragazza non è, in fondo, causa dei propri mali?
"Va bene." Disse Carl. "Indagheremo sulle sue amicizie. Ma come li troviamo?"
"Nessun problema. Ai tempi delle prime indagini, mi segnai vari nomi. Trovarli non sarà difficile."
"OK."
Erano arrivati all'uscita. Ad aspettarli, c'erano il capo delle guardie, Gibble, e un'altra guardia che a Stevens stava abbastanza simpatica. Gli sembrava che si chiamasse Busey, o qualcosa del genere. Aveva forse trent'anni ed era di media statura, ma accanto a quel bulldog incazzoso di Gibble sembrava quasi un ragazzino.
"Buongiorno, sceriffo Stevens." Disse la guardia più giovane, con un sorriso.
Gibble si limitò a un grugnito.
"Buongiorno a voi." Rispose lo sceriffo.
"E buongiorno, signor...?" Disse Busey, guardando Carl con interesse.
"Riley. Buongiorno." Rispose lui, con tono neutro.
La guardia sorrise.
"E' una bellissima giornata, oggi. Capisco perché vi sia venuta voglia di fare una bella gita qui. Non per vantarci, ma la gente farebbe letteralmente
di tutto per entrare qui de-"
"Stai un po' zitto, Lloyd." Abbaiò Gibble.
Il sorriso di Busey si spense.

“Sissignore.”
“Non fai ridere nessuno, che cazzo.”
“Sissignore. Mi scusi.”
In realtà, a Stevens un sorrisino era scappato. Ma questo non migliorò di certo l'umore di Gibble. Sempre osservando lo sceriffo con antipatia, aprì per loro il cancello che conduceva all'esterno.
I due uomini furono più che contenti di uscire e, a passo spedito, raggiunsero la macchina del poliziotto.
“E' sempre così amichevole, il capo delle guardie?” Chiese Carl.
“Oh, anche di più. Purtroppo, non gli sono mai stato molto simpatico.”
“Un vero peccato.”
“L'hai detto.”
Mentre guidava verso la centrale, Stevens si ritrovò a riflettere sulle prigioni. Nella sua mente, erano associate indelebilmente a tribunali, centrali di polizia e ospedali. Basi della civiltà come la intendiamo, luoghi considerati essenziali. Ma anche luoghi di dolore. Luoghi dove succedono cose brutte tutti i giorni, dove il sangue e la sofferenza sembravano aver ormai intriso le pareti. Chi ci lavora non se ne accorge più, come un allevatore che ormai non sente più la puzza della merda di vacca, ma quel dolore rimane. Nell'aria. Nessuno potrà mai eliminarlo.
“Dovevi fare il filosofo, invece del poliziotto.” Gli diceva spesso Mary.
“Quelli non guadagnano un cazzo.” Gli rispondeva immancabilmente lui, facendo ridere entrambi.
Giunto a quell'età, però, si chiedeva sempre più spesso come sarebbe stata la sua vita, se avesse scelto un altro lavoro. Migliore? Peggiore? O semplicemente diversa?
Domande che ci facciamo tutti, a qualche punto. Domande inevitabili e completamente inutili, come tutto ciò che viene fatto col senno di poi.
“Fanculo...” Borbottò lo sceriffo, senza rendersi conto di averlo detto a voce alta.
“Già. “Rispose semplicemente Carl, guardando fuori dal finestrino.
“Scusa, pensavo ad alta voce.”
“Beh, il messaggio era condivisibile.”
Stevens sorrise.
“Che ne dici se, prima di andare in centrale, facciamo un salto da Maggie? Ho una certa fame.”
“Va bene.”
“Offro io, se mi prometti di bere solo dell'aranciata.”
Carl sorrise.
“Vediamo.”

Si erano ormai fatte le due. Il sole aveva una sfumatura vagamente malinconica, quel tipo di luce che ti mette voglia di fare un riposino pomeridiano o di leggere un libro su un'amaca. Qualunque cosa, a parte lavorare. Maggie aveva appena portato via i piatti vuoti, lasciando sul tavolo solamente il ginger ale dello sceriffo e la birra di Carl.
“Tu credi in Dio, Carl?”
Carl alzò lo sguardo dal tavolo. Aveva passato gli ultimi minuti assorto nei suoi pensieri, con quello sguardo vagamente spiritato che inquietava leggermente Stevens. Ora, invece, aveva un'espressione a metà tra l'incredulo e il divertito.
“Accidenti, sceriffo. Mi colpisce a tradimento con queste domande esistenziali, proprio dopo un lauto pasto? Non è illegale?”
Stevens sorrise.
“Non se si è della polizia. E' scritto sullo statuto.”
Carl annuì, fingendosi colpito.
“Quindi non posso evitare la domanda?”
“Puoi appellarti al quinto emendamento, se vuoi.”
“Nah, rispondo senza problemi e rinuncio ad avere un avvocato durante l'interrogatorio.”
Stevens ridacchiò.
“No, non credo in Dio.”
Lo sceriffo annuì. Non era sorpreso.
“Perché me lo chiede?”
Il poliziotto si strinse nelle spalle.
“Non lo so, esattamente. E' qualcosa che mi chiedo sempre, delle persone che incontro. Specie quando hanno visto roba brutta, come te e me.”
Carl annuì.
“Capisco. Lei ci crede, sceriffo? Immagino di sì, sennò non me lo chiederebbe.”
Stevens esitò, prima di rispondere. Guardava il proprio cappello, abbandonato sul tavolino.
“Io... Credo di
volerci credere. So per certo che ci credevo di più in passato.”
“Prima che morisse sua moglie?”
Lo sceriffo alzò lo sguardo, serio. Carl si accigliò.
“Mi scusi. E' stata una domanda maled-”
“No, non devi scusarti. Ho iniziato io questa conversazione e la tua domanda è assolutamente legittima. Sì, la morte di Mary ha decisamente messo a dura prova la mia fede. Non lo nego. Del resto, era sempre stata lei quella più credente. Fosse stato per me, la domenica mattina avrei dormito fino alle undici. Se Dio è dappertutto, è anche nel mio letto, no?”
Carl sorrise.
“Ma Mary voleva andare in chiesa e io volevo stare con lei. Molto semplice.”
Lo sceriffo si schiarì la voce.
“Ormai non ci vado più da... Cavolo, chissà da quanto. Lei, invece avrebbe mantenuto la stessa fede, se fossi morto prima io. Forse ci avrebbe creduto anche di più, sai?”
Carl annuì, pensoso.
“Sarò sincero, sceriffo. Prima che morisse Kelly, io non ero comunque credente. Ma, dopo la sua morte, la questione è diventata più profonda.”
Stevens lo osservò, interessato. Carl si grattò la guancia e fissò la propria birra, mentre parlava.
“Prima, semplicemente, avevo poco interesse nella questione. Non vedevo che differenza facesse. Pensavo ai miei problemi, alle cose che dovevo fare. Insomma, fede o non fede, bisogna sempre guadagnarsi il pane, no?”
Lo sceriffo sorrise, annuendo.
“Poi, alcune delle cose che ho visto nell'esercito hanno, come dire, confermato che Dio non esiste. O che, se esiste, se ne sbatte della gente. E, alla fine, non faceva molta differenza. Almeno per me.”
Stevens osservava il ragazzo con attenzione. Le voci degli altri clienti nel diner erano un sottofondo irrilevante. In quel momento, esistevano solo lui e Carl.
“Ma, dopo Kelly, la questione è diventata diversa. Ho passato più tempo a pensare. Troppo, direi. Sono sicuro che lei lo sa, quanto tempo si ha a disposizione per pensare, quando muore qualcuno che amiamo. Non finisce mai.”
Nessuna risposta da parte del poliziotto. Non serviva.
“Ho pensato anche a Dio. A Dio, all'aldilà, all'idea di un disegno cosmico. Tutti gli annessi e connessi. E sa cosa credo, adesso, sceriffo?”
Il ragazzo alzò lo sguardo dalla sua birra e fissò Stevens negli occhi.
“Credo che le cose siano casuali, in questo universo. Totalmente, orribilmente casuali. A volte il caso ha effetti che a noi risultano positivi, ovviamente. E' casuale quanto un qualche bidello vince la lotteria. O quando un tumore va in remissione spontanea. E' casuale, ma è anche positivo, quindi tutti urlano al miracolo. Ma spesso, la maggior parte delle volte, questo caso si esprime in modi che per noi sono negativi. Facendoci del male, spaventandoci, portandoci via cose che amiamo. In quel caso, non si parla di miracolo. Si accetta come normale, come parte della vita di tutti i giorni. Le sofferenze sono viste come norma, la fortuna come un favore.”
Stevens annuì. Non era un gesto che indicava necessariamente accordo, ma era un gesto che esprimeva comprensione e interesse.
Carl ridacchiò.
“Sembra uno studente, sceriffo. La sua concentrazione è molto lusinghiera. Sembra pronto a prendere appunti.”
Lo sceriffo sorrise e si indicò la testa.
“Sto annotando tutto qui dentro, non dubitare. Ora continua, ti prego.”
“Va bene.”
Il ragazzo bevve un sorso dalla sua bottiglia.
“Io, sceriffo, guardo il cielo e vedo solo una grande indifferenza. Un opprimente, soffocante infinito. Una realtà in cui non si può mai abbassare la guardia, perché c'è sempre qualcosa in agguato che potrebbe fare del male a te o alle persone che ami. C'è chi chiama questo caso Dio, o chi vuole credere che sia tutto parte di un disegno. Io, onestamente, non vedo cosa ci sia di rassicurante, in questa idea. Se è una tragica fatalità a uccidere qualcuno che amiamo, ci fa impazzire. Ma se è stato Dio a ucciderlo, siamo felici? No, non mi dà alcun sollievo. Non trovo che abbia molto senso.”
Il ragazzo si mise a giocare distrattamente con il tappo della bottiglia, facendolo girare pigramente sul tavolo.
“Non credo in Dio e non credo neanche nell'aldilà. Non credo che ci fosse un motivo valido, per far morire Kelly. E nessun motivo mi andrebbe bene. Non credo neanche che la rivedrò, se è per questo. Vedo solo una vasta, indifferente ed eterna oscurità. Quando morirò, ne farò parte anche io. Ma, in realtà, ne ho sempre fatto parte. L'unica differenza, è che dopo non ne sarò più consapevole.”
“Quindi non c'è una giustizia cosmica, secondo te? I debiti non verranno saldati, a qualche punto? Non c'è un significato più grande? Un ordine di qualche tipo?”
Carl scosse la testa.
“L'unico modo per avere un po' di giustizia e di ordine, per quanto mi riguarda, è farsi il culo qui, nel presente. Nessun disegno valeva la vita di mia sorella e me ne sbatto della giustizia divina o della retribuzione nell'aldilà. Non intendo scommettere tutto su un fantomatico dopo che nessuno può dimostrare. Fermiamo i mostri qui, in questa vita. Abbattiamoli subito. E cerchiamo di dare valore alle cose che abbiamo nel presente. Alle persone che abbiamo qui. Finché possiamo. Questo credo.”
Carl smise di giocare con il tappo.
“Il resto è una montagna di cazzate che le persone si ripetono per non impazzire e per non osservare l'assurdità del cosmo negli occhi. Mi dispiace dirlo in modo così brutale, ma è quello che penso. Per quanto mi riguarda, gli esseri umani che si convincono che Dio aveva un buon motivo per creare il cancro o spazzare via un villaggio con uno tsunami, non sono diversi dai figli di genitori violenti che si convincono di essersela cercata, in qualche modo. Papà non è cattivo, ha sicuramente avuto i suoi buoni motivi per spegnermi addosso la sigaretta. Forse sono stato io, quello cattivo.”
Carl riprese fiato e finì la sua birra. Stevens non disse nulla.
“Mi dispiace, sceriffo. So di essere pesante, nel mio pessimismo. Anche se io, personalmente, lo definirei realismo. So che risulto deprimente. Per questo parlo poco.”
Stevens sorrise e scosse la testa.
“Credo che ti faccia bene parlare, Carl. E a me fa piacere ascoltare.”
Anche Carl sorrise.
“E di quello che ho detto, cosa ne pensa?”
“Stasera rivedo i miei appunti e ti faccio sapere.”
I due risero insieme. Un bel suono, quello semplice e limpido di due amici che pranzano insieme.
“Beh, direi che è ora di andare.” Disse infine Stevens. “Passiamo un attimo in centrale e-”
Si udì il suono di un cellulare. Veniva dalla tasca dello sceriffo.
“Scusami un attimo, Carl.”
“Certo.”
“Dannati aggeggi... Un attimo!” Disse Stevens, estraendo il telefono. “Pronto? Qui Stevens.”
L'uomo ascoltò con attenzione. Con apprensione, Carl vide il vo
to dello sceriffo sbiancare.
“Sì... Ho capito. Arrivo subito.”
Spense il cellulare e lo rimise in tasca.
“E' successo di nuovo, vero?” Chiese Carl. “Un'altra ragazza.”
Stevens annuì.
“Figlio di puttana...”

Questa volta, il corpo era stato trovato sotto un cavalcavia, poco fuori città. Servivano altri esami, ma il coroner stimò che la ragazza dovesse essere stata uccisa la notte prima, come minimo. Le tracce di sangue intorno al corpo suggerivano che l'omicidio fosse avvenuto proprio lì. Era una strada secondaria, circondata dai boschi e poco frequentata di notte. Ucciderla lì era stato un rischio, ma non eccessivo. L'assassino aveva poi coperto il corpo con delle buste della spazzatura. Decine di macchine vi erano passate davanti, inconsapevoli di quell'orrore. Poi, finalmente, un camionista si era fermato lì vicino per pisciare e aveva visto qualcosa di pallido che sbucava dalla plastica nera.
“Ho pregato che fosse solo un manichino, o qualcosa del genere. Invece... Povera ragazza...”
L'uomo si chiamava Trent Avery. Aveva l'aria sconvolta, ma non isterica. Aveva chiamato subito la polizia e poi era rimasto lì ad aspettare gli agenti. Un gesto onorevole, in effetti. Non tutti sarebbero rimasti.
“Non ha visto nessuno, qui intorno?” Chiese Stevens.
“No, nessuno. Mi dispiace.”
“Se posso chiederglielo, dov'era ieri notte?”
“A più di duecento chilometri da qui. Ho dormito qualche ora in un piccolo albergo, sull'intestatale. Ho guidato tutta la mattina e sono arrivato qui solo oggi pomeriggio.”
“Potrebbe fornirmi il nome dell'albergo?”
“Certo. Un secondo, che ora non mi ricordo...”
Il camionista prese fuori il proprio cellulare e controllò le sue ultime ricerche.
“Eccolo. Il Welcome Inn.”
Stevens si annotò nome e numero di telefono.
“La ringrazio. La contatteremo se avremo ulteriori domande. E' pregato di restare in città per almeno ventiquattro ore.”
“D'accordo. Per fortuna ho consegnato il carico stamattina. Sennò il capo mi avrebbe scartavetrato le palle.”
Stevens gli sorrise e lo ringraziò di nuovo, poi si allontanò e tornò alla macchina. Fu felice di constatare che Carl era ancora dentro. Lo sceriffo si era fatto promettere dal ragazzo che non sarebbe uscito, per nessun motivo. Fortunatamente, era stato ascoltato.
Stevens però vedeva lo sguardo spiritato con cui il ragazzo osservava il corpo, circondato dalle sagome bianche dei membri della scientifica.
“Andiamo via.” Disse, salendo a sua volta in macchina. “Non possiamo fare altro, qui.”
“Che cosa c'era, stavolta?” Chiese Carl.
“Come?”
“Insieme al corpo. Che oggetto hanno trovato?”
Stevens sospirò.
“In una delle buste, abbiamo trovato una trottola. Deve averla messa nelle buste per paura che andasse persa, immagino.”
Carl annuì.
“Di che colore?”
“Viola.”
“E quel tipo con cui ha parlato? Come le è sembrato? C'entra qualcosa?”
“In centrale verificheremo il suo alibi, ma non credo che c'entri nulla.”
“Come fa a dirlo?”
“Istinto.”
Il ragazzo annuì di nuovo.
“E la ragazza? E' stata uccisa qui o ce l'ha portata l'assassino?”
“Devono fare altri rilievi, ma sembrerebbe che sia stata uccisa qui e poi lasciata sotto le buste tutta la notte.”
“Perché mai una ragazza se ne starebbe qui, in piena notte?”
Stevens scosse la testa.
“Non lo so, Carl . Forse ce l'ha portata lui con la forza. O forse era una prostituta e lui aveva un auto. Lo scopriremo.”
“Avete un nome?”
Lo sceriffo scosse la testa.
“Nessun documento e nessuna borsetta. Questa volta, se li è portati via. Ci vuole rallentare.”
“O prendere per il culo.”
“Già.”
Stevens mise in moto. I due uomini rimasero in silenzio, mentre l'auto si avviava verso la centrale di polizia.
Era un'altra bellissima giornata di sole.

“La scientifica conferma: la ragazza è stata uccisa proprio lì sotto.”
“Povera ragazza.”
“Già.”
Si trovavano nell'ufficio di Stevens. Erano le quattro del pomeriggio e il sole picchiava più forte che mai. Lo sceriffo sedeva sulla sua vecchia, fidata poltroncina in pelle. Carl, invece, se ne stava in piedi e osservava le foto appese alle pareti.
“La vittima si chiamava Greta Popovich.” Continuò Stevens. “Origini russe. Era una prostituta, ecco perché era in giro in quella zona. Abbiamo mostrato la foto alla buoncostume e l'hanno subito identificata. Era stata fermata varie volte. Mi hanno anche detto che quella strada secondaria è abbastanza popolare, come luogo di ritrovo.”
“Quindi l'assassino è stato avventato, a ucciderla lì. Avrebbero potuto vederlo altri uomini che cercavano una prostituta.”
“Il coroner dice che questa volta ci ha messo meno delle altre volte, a uccidere. Ha stretto molto forte il filo metallico e lei è morta in un minuto, massimo due. Una volta uccisa, aveva solo da gettarle sopra i sacchi e ripartire. Aveva buone probabilità che non passasse nessuno, in così poco tempo.”
Carl annuì.
“E' efficiente, il bastardo. E il camionista?”
“L'alibi è confermato. Era lontanissimo dal luogo del delitto, quando la ragazza è stata uccisa.”
“OK.” Disse Carl, poco sorpreso. “Adesso, che si fa?”
“I miei ragazzi hanno cercato quella Olivia Reese. La buona notizia è che risultava residente in questo stato, convivente della madre. La cattiva notizia è che, poche settimane fa, dopo l'ennesimo litigio, ha fatto i bagagli e se ne è andata. La madre non sa dove si trovi, al momento.”
“Cazzo.”
“Non ti preoccupare. Cercheremo le sue carte di credito, controlleremo i registri degli hotel e un mucchio di altre cose. Salterà fuori.”
“E se andassimo a parlare con la madre, intanto?”
“Se non salta fuori nulla entro stasera, lo faremo. Ma preferirei non agitare ulteriormente quella donna, se necessario. Ha ottantasei anni e ha già avuto due infarti. Inoltre, non penso che servirà parlarci. Questa Reese non mi dà l'idea di un genio criminale.”
Carl si voltò a guardare lo sceriffo.
“Come fa a dirlo?”
Lo sceriffo prese una delle lettere dal mucchio che gli aveva dato Greysmith. Si schiarì la gola e iniziò a leggere, seguendo minuziosamente la grammatica e la sintassi del testo.

Caro Jimmy,
Tutti penzano che sei cativo, ma io sono l'unica ce ti capisce.
Ti suplico, rispondimi questa volla.
Mi manci,
Olivia

Carl inarcò le sopracciglia.
“Sono tutte così?”
“Sì, sebbene Olivia abbia quasi cinquant'anni. Sua madre mi ha riferito che la bocciarono tre volte alle superiori, prima che mollasse. Non ha mai avuto lo stesso lavoro per più di un anno. Il suo quoziente intellettivo, se vogliamo fidarci di quei test, era risultato essere 70. La madre ha anche detto che era molto ingenua, apatica e che aveva sempre avuto un'attrazione malsana per i tipi violenti.”
Lo sceriffo tirò fuori un'altra cosa dalla busta. Era una polaroid. Mostrava una donna dalle folte sopracciglia, il volto scavato e l'espressione vacua. Il sorriso, che forse voleva apparire seducente, non coinvolgeva minimamente i suoi occhi. I capelli grigi stonavano incredibilmente con quel volto pallido, liscio e infantile. L'effetto, in effetti, era inquietante.
“Inoltre, i miei agenti manderanno questa foto in giro per tutto lo stato. Se qualcuno l'ha vista, lo verremo a sapere.”
Carl annuì.
“Quindi lei crede che si tradirà, in qualche modo.”
“Decisamente. Se si sta nascondendo, penso che la troveremo. E, magari, lei neanche sa di doversi nascondere. Potrebbe non c'entrare nulla con questi omicidi. Ma potrebbe avere comunque qualche informazione utile.”
Il ragazzo si sedette e prese in mano una delle matite che costellavano la scrivania, passandosela distrattamente tra le dita.
“Va bene. Quindi che facciamo, aspettiamo e basta?”
Stevens esitò, prima di rispondere.
“In realtà, io avrei un'idea. Ma devi promettermi che farai il bravo, se ti porto con me.”
“Dove andiamo?”
“Da Mike Bueller. L'ex fidanzato di tua sorella.”
La matita si spezzò tra le mani di Carl.


“Siamo proprio sicuro che si trovi qui?” Chiese Carl. “Siamo in questa macchina da quasi un'ora.”
“Questo lavoro funziona così. Ci vuole pazienza.”
“Ma siamo sicuri che sia qui?”
“Sì. Calmati, dovrebbe uscire a breve.”
I due osservavano l'edificio dall'altra parte della strada. Il Centro Ricreativo era ben tenuto. L'intonaco era stato rifatto recentemente, l'insegna sopra l'ingresso era immacolata e i murales che ricoprivano la facciata erano chiaramente stati una volontà dei gestori. C'erano due pugni alzati, uno bianco e uno nero. Una colomba che portava un rametto d'ulivo. Un fiocco rosa contro la violenza nei confronti delle donne. E altre immagini positive, sebbene innegabilmente trite, di quel tipo.
Il centro era stato fondato da una cooperativa sociale chiamata Better Tomorrow, con l'aiuto di un parroco locale, Padre Harris. Per quello che ne sapeva Stevens, era un buon progetto. Portavano cibo alle famiglie povere, davano ai ragazzi dei quartieri poveri un luogo dove giocare a basket, mettevano a disposizione libri e DVD, aiutavano donne maltrattate. Inoltre, avevano una piccola sala prove, dove le band locali potevano suonare gratuitamente, a patto che portassero qualche genere alimentare per la dispensa del centro. Una delle band in questione si chiamava Needle Hole e il loro chitarrista, ormai da quasi tre anni, era un ragazzotto brufoloso e tarchiato di nome Mike Bueller.
“Quanti anni ha, quell'idiota, ormai?” Chiese Carl. “Ventitre?”
“Ventiquattro, stando al fascicolo.”
“E suona ancora qui? Non è un posto per ragazzini?”
“Il centro non fa di queste distinzioni, fintanto che la gente segue le loro regole.”
Carl emise un grugnito.
“Non ti è mai piaciuto, quel ragazzo. Vero?”
Carl scosse la testa.
“Mai capito che cosa ci trovasse Kelly. E' un troglodita. Non so come trovi la strada di casa, senza dei cartelli.”
“Trattava male tua sorella?”
Carl annuì, sbrigativo.
“Sì.”
Ma Stevens non si accontentò.
“Dimmi altro, Carl. Ti ho portato qui, me lo devi.”
Carl sospirò.
“Va bene.”
Il ragazzo si passò la mano sul viso.
“Quel Bueller le ruppe quasi il naso, una volta. Le diede una sberla. Le uscì così tanto sangue che dovette buttare il vestito. Era un bel vestito a fiori, bianco. Kelly lo amava, lo indossava sempre.”
“Quando accadde?”
“Qualche mese prima che Kelly morisse. Lei me lo scrisse per messaggio. Io non- Io ero distaccato in Afghanistan.”
Stevens annuì, aspettando il resto.

“Kelly disse che l'aveva colpita perché, secondo lui, lei aveva fatto la civetta con un altro.”
“Era vero?”
“Non glielo chiesi. Non aveva importanza. Quel cazzone non aveva comunque nessun diritto di toccarla.”
Lo sceriffo annuì.
“Sacrosanto.”
“Lei lo lasciò poco dopo. Temevo che Bueller avrebbe fatto qualcosa di stupido. Sa, gente così non è particolarmente brava a gestire il rifiuto.”
Stevens annuì di nuovo.
“Ma Kelly non mi riferì mai nulla. Disse che lui lo aveva accettato.”
“E tu ci credesti?”
Carl scosse la testa.
“Non lo so. Non ci pensai abbastanza, forse. Ora mi chiedo se non feci un terribile errore.”
Stevens gli diede una pacca sulla spalla.
“Non ti torturare, Carl. Siamo qui solo per un controllo. Il ragazzo potrebbe non c'entrarci nulla. Anzi, credo che sia abbastanza probabile.”
“E allora perché siamo qui?”
“Perché probabile non vuol dire certo e io odio avere dubbi, per quanto piccoli.”
Il ragazzo annuì.
“Mi pare giusto.”
La porta del centro si aprì. Ne uscirono quattro ragazzi. Il più alto, con i capelli rasati più corti di quelli di Carl e un sorriso ebete sul volto, era decisamente il loro uomo.
“Eccolo. Come ci muoviamo?” Chiese Carl.
“Seguimi e lascia parlare me. Sangue freddo, OK?”
“OK.”
I due uomini uscirono dall'auto, silenziosi.
Il volto di Carl era rigido e pallido, come quello di un cadavere.

“Mike Bueller?”
Il ragazzo si voltò, circospetto. Il suo sorriso da ebete era sparito. Strabuzzò gli occhi, nel vedere la stella appuntata sulla camicia di Stevens.
“Chi siete? Che volete? Io non ho fatto n-”
All'improvviso, il ragazzo incrociò lo sguardo freddo e sprezzante di Carl. Il volto gli divenne bianco come un foglio di carta.
“Tu!”
Poi, sorprendendoli entrambi, si mise a correre.
“Fermo! Fermo!” Urlò Stevens, inseguendolo.
Carl gli venne dietro. Nonostante bevesse molto di più, era anche molto più giovane e allenato. In pochi secondi, superò lo sceriffo di qualche metro.
Bueller girò l'angolo, infilandosi in un vicolo. Carl non gli si scollò di dosso. Stevens, invece, dovette fermarsi a prendere fiato. Il petto gli faceva male e il mondo sembrava girargli intorno.
“Cazzo...” Mormorò. “Cazzo...”
“Ci penso io, sceriffo!” urlò Carl, che aveva già imboccato il vicolo. “Non si preoccupi!”
Stevens annuì distrattamente, sedendosi maldestramente per terra.
Cristo, era un infarto?

Bueller correva con tutte le sue forze, ma era grosso e lento e sgraziato. Non ci volle molto, prima che Carl lo raggiungesse. L'ex soldato gli diede un calcio alla caviglia, facendolo incespicare. Il ragazzotto cadde rovinosamente sull'asfalto, con un grugnito di dolore e di sorpresa. Scivolò per un paio di metri, in una scena degna di un vecchio film comico. Incredibilmente, la chitarra che aveva sulla schiena non toccò il suolo e rimase illesa.
Carl gli mise un piede sul polpaccio destro e premette forte. Bueller urlò.
“Fossi in te, rimarrei lì fermo a sanguinare e a pisciarmi addosso, Mikey. Ti conviene.”
“Cosa vuoi? Che cazzo vuoi?”
Carl appoggiò l'altro piede sulla mano destra del ragazzo. Non applicò molta pressione, ma il ragazzo trovò comunque impossibile liberarsi.
“Cosa fai?”
“Ti è sempre piaciuta la musica, vero Mikey?”
“Non chiamarmi così! Mi chiamo-”
Carl iniziò a spingere sulla mano.
“Lo so come ti chiami. Mikey. Ora rispondi.”
“”Sì! Sì, mi piace la musica! E allora?”
Carl strinse i pugni.
“Cosa proveresti, se ti venisse portata via? Se una qualche testa di cazzo egoista e meschina decidesse che è suo diritto distruggere ciò che ami?”
“Non capisc-”
Carl iniziò a stritolare la mano. Bueller si mise e gemere dal dolore.
“Ora capisci? Potrei romperti la mano con estrema facilità, Mike. Una frattura scomposta. Mesi di terapia e probabilmente non suoneresti mai più come prima.”
“No! No, ti prego!”
“Perché non dovrei? Tu a Kelly hai rotto il naso, non è forse vero?”
“Non volevo, mi aveva fatto arrabbiare! E poi non era rotto, era stata solo una sbe-”
Carl usò l'altro piede per dargli un calcio al fianco destro.
“Ti capisco. Anche io perdo il controllo, quando mi incazzo.”
“No, no! Ti prego! Mi dispiace! Mi dispiace!”
Carl grugnì.
“ E di cos'altro ti dispiace, Mikey? Cos'altro hai fatto?”
“Niente! Niente, lo giuro!”
“Hai ucciso tu Kelly?”
“Cosa? No!” La risposta era troppo sorpresa e spaventata per essere una recita. Era troppo stupido per mentire con tale prontezza.
“E hai mai ucciso qualcun altro?”
“No! No, lo giuro!”
Carl annuì, pensoso.
“Va bene, diciamo che ti credo. Non sei un assassino, sei solo un fottuto vigliacco che picchia le donne. E' così?”
“Io-”
Carl stritolò di nuovo la mano.
“Dillo, Mikey.”
“Va bene, va bene! Sì!”
“Sì, cosa?”
“Sì, picchio le donne! Mi dispiace!”
Carl gli diede un altro calcio. Bueller piagnucolò.
“E ora dimmi, Mikey. Perché non dovrei comunque romperti la mano, anche se non sei un assassino?”
“No! Ti prego!”
“E a me che cazzo me ne frega se mi preghi, Mikey? Cosa cazzo vuoi che me ne freghi? Ti odio e hai picchiato mia sorella. E ti tengo per le palle. Se voglio, posso farti del male. Sono io quello con il coltello dalla parte del manico, stavolta. Non sono una ragazzina con un vestito a fiori. Sono un ex-soldato alcolizzato che non ha niente da perdere.”
“Ti prego... Non farlo.”
Carl picchiò il tacco. Forte. Bueller urlò.
Il piede di Carl, però, aveva colpito l'asfalto.
Il ragazzotto fissò Carl, terrorizato.
“Non- Non mi hai rotto la mano.”
“No. Ma tu l'avresti fatto, al posto mio. Vero?”
Bueller non disse nulla.
“Proprio come picchieresti di nuovo una donna che ti fa incazzare, vero?”
Di nuovo silenzio.
“Hai picchiato altre fidanzate, dopo Kelly?”
Ancora, silenzio.
Carlo lo alzò in piedi, con una forza stupefacente che prese completamente di sorpresa Bueller.
L'ex-soldato lo fissò negli occhi, con uno sguardo di ghiaccio. La rabbia sembrava uscire dai suoi pori, come un gas velenoso o una nube radioattiva.
“Diventa una persona migliore, stronzo.”
Qualche momento dopo, Stevens li raggiunse, ansimando.
“Carl! Cosa è successo?”
“L'ho preso sceriffo. Alla fine, sì è fermato da solo. Lei sta bene? Non ha una bella cera.”
“Tutto bene, grazie. Temevo fosse un infarto, ma è solo la vecchiaia.”
Carl sorrise.
“Sarà comunque meglio che si riposi.”
“Sto bene.” Lo sceriffo fissò i due ragazzi. “Hai usato la forza bruta, Carl?”
“Certo che no. Vero, Mikey?”
Bueller lo guardò, spaventato e arrabbiato. Poi annuì.
“E' come dice lui. Mi sono fermato da solo.”
“Dimostrando grande senso civico.” Disse Carl.
“Perché sei scappato?” Chiese lo sceriffo. “Non so quante serie TV guardi, amico mio, ma gli innocenti non scappano, di solito.”
“Io- Io ho riconosciuto lui. Pensavo che volesse picchiarmi.”
“Mi offendi, Mikey.” Disse Carl.
Stevens fissò con attenzione Carl, che ricambiò lo sguardo con un'espressione fredda e indecifrabile. Poi, guardò i vestiti di Bueller, sporchi di polvere. Il suo sguardo acuto notò anche la mano del sospettato, che aveva il chiaro segno di una suola ma sembrava altrimenti illesa.
“Ne riparliamo dopo.” Disse lo sceriffo, con tono duro. “Adesso andiamo in centrale.”
“Va bene.”
I tre uomini si incamminarono.
Il sole iniziava a tramontare, tingendo il cielo un rosa mozzafiato, impossibilmente bello e dolce. Un'altra giornata volgeva al termine.

In centrale, Bueller diede le stesse risposte che aveva dato a Carl.
No, non aveva ucciso lui Kelly.
No, non aveva mai ucciso nessuno.
Stevens gli credette. Inoltre, l'idiota fornì anche degli alibi, confermando che non poteva essere stato lui a uccidere le ultime due vittime. Era in sala prove, le notti degli omicidi. Molte persone potevano confermarlo.
Non aveva mai avuto un albi di ferro per la morte di Kelly (dormiva in camera sua, stando alla madre), ma sinceramente l'assassino della ragazza aveva dimostrato un livello di abilità e discrezione che lo sceriffo non riusciva ad associare al ragazzotto scemo che sedeva davanti a lui nella stanza degli interrogatori. E il suo istinto gli diceva che non c'entrava nulla.
Dopo un paio d'ore di colloquio, lo fece tornare a casa. Gli venne in mente di dargli del ghiaccio per la mano, poi ripensò alla storia del naso sanguinante e del vestito macchiato e decise di non dargli nulla.
Che ci pensasse la madre, a dargli del ghiaccio.

Ormai si era fatta notte. Stevens e Carl sedevano nel salotto del poliziotto. Entrambi bevevano ginger ale.
“Fuori di qui puoi fare quello che vuoi, per quanto stupido.” Aveva detto il padrone di casa. “Sei un uomo adulto, fai le tue scelte. Ma in casa mia, niente di più alcolico di un caffè.”
Carl aveva accettato di buon grado.
Bevvero in silenzio per un po', prima che Stevens si decise a dire quello che gli frullava in testa da qualche ora.
“So che lo hai minacciato, Carl.”
Carl non fece il finto tonto, ma si limitò ad aspettare il seguito.
“Lo hai picchiato?”
“Non userei queste parole.”
“Hai usato la forza fisica per intimidirlo?”
“Sì.”
Stevens sospirò e appoggiò il bicchiere vuoto sul tavolino.
“Non va bene, Carl. E' già estremamente poco professionale che io ti porti in giro con me. Anche con la scusa che mi fai da consulente. Se rifai una cosa del genere, sarò costretto a cacciarti via a pedate. Mi dispiace.”
Carl annuì.
“Mi dispiace, sceriffo. Non accadrà più.”
Stevens lo fissò, cercando di decifrarne lo sguardo.
“Tu odi quel Bueller, non è vero?”
“Sì.”
Stevens sospirò.
“E' comprensibile, ma dovrò chiederti di controllarti, in futuro. Se prendiamo l'assassino, chiunque sia, non posso rischiare che mandi a puttane l'arresto mettendoti a picchiarlo. Chiaro?”
“Lo so.”
“E bada, Carl. Non ti permetterò neanche di ucciderlo, se è per questo. Lo so che è questa la tua intenzione. Non sono stupido.”
“Mai pensato che lo fosse.”
“Non ti permetterò di farlo per due motivi. Il primo è il più importante, per me. Ovvero, non voglio che ti distruggi l'anima facendo una cosa del genere.”
“Sceriffo, ho già ucci-”
“No, ascoltami. So che hai ucciso gente in guerra. E so che lascia il segno, Carl. Ho ucciso anche io persone durante il mio servizio come poliziotto. Te ne rendi conto, vero?”
Carl non disse nulla.
“Ma farlo per vendetta, in modo così calcolato? No. Ho bisogno di credere che sia diverso. E credo che sia peggio. E non voglio che tu diventi il tipo di persona che fa una cosa del genere. Non saresti diverso da certe persone che ho arrestato. Sei migliore di questo e devi rimanere tale.”
Carl sorrise.
“Mi dà troppo credito, sceriffo.”
“E tu te ne dai troppo poco.”
Carl sorrise di nuovo.
“Dovremo concordare di essere in disaccordo, temo.”
“Non sono d'accordo.”
I due uomini risero.
“E ora? Che facciamo?” Chiese il ragazzo.
“Ora troviamo quella Olivia Reese. E' la pista migliore che abbiamo. Sinceramente, dubito che sia l'assassino. Ma magari lo conosce. Se quello non porta a nulla, interrogheremo qualche altro ragazzo che girava intorno a tua sorella.”
Carl annuì, pensoso.
“Qual è l'altro motivo?” Chiese dopo qualche momento. “Per quale altro motivo non dovrei uccidere l'assassino?”
Stevens sbuffò.
“Mi pare ovvio. E' troppo facile, cavarsela così. Quel bastardo deve marcire in galera. Deve avere tutto il tempo di rimpiangere gli orrori che ha commesso.”
Carl sorrise.
“Allora non è animato solo da nobili principi, sceriffo. Un po' di soddisfazione la trae anche lei, dal punire queste persone.”
Stevens si rabbuiò momentaneamente.
“Cerco di essere un brav'uomo, Carl. Non sono un cazzo di santo.”
Per alcuni minuti, i due non dissero più nulla.
“Beh, sarà meglio che vad-”
Le parole di Carl furono interrotte dal suono del telefono.
I due si guardarono, preoccupati. Stevens guardò il proprio orologio. Era l'una di notte.
“Sarà lui?” Chiese Carl.
“Penso proprio di sì.”
Lo sceriffo sollevò la cornetta e attivò il vivavoce.
“Pronto?”
“Buonasera, sceriffo.” Disse l'odiata voce distorta.
“Che cosa vuoi?”
La voce rise.
“Suvvia, non sarebbe ora di diventare amici? Dopotutto, frequentiamo gli stessi posti. Passiamo il tempo con le stesse donne.”
“Piantala.”
La voce sospirò, ma il tono era divertito. Persino con la distorsione, era palese.
“Va bene, va bene. Mi dica, il signor Riley è lì?”
Stevens e Carl si guardarono.
“Perché vuoi saperlo?”
La voce rise.
“Sì, è lì. Ottimo. Volevo solo chiedergli come sta.”
Carl guardò lo sceriffo con espressione interrogativa. Stevens annuì, facendogli segno che poteva rispondere.
“Io sto una meraviglia, grazie. Vuoi venire qui, scambiare due chiacchiere di persona?”
La voce rise nuovamente.
“Lei ha spirito, signor Riley. Non si fa mettere i piedi in testa, vero?”
“Non da gente come te, no.”
Stevens gli fece segno di non scaldarsi, alzando una mano.
“Bella risposta.” Disse la voce. “Lei mi piace. Anche sua sorella era così, era un tipo tosto.”
Carl strinse la mascella.
“Ma essere tosti non basta, per sopravvivere. E' morta lo stesso, come tutte le altre.”
“Ora basta.” Disse Stevens. “Io riattacco.”
“Kelly però è stata una di quelle che ha combattuto di più, devo ammetterlo.” Disse la voce.
“Cosa vuoi dire?” Scattò Carl.
“Beh, ricordo che quasi mi scappò. Mi sorprese con una mossa di judo. O forse era karate, non so. Un bel colpo, comunque. Quando la presi alle spalle, cercò di tirarmi il braccio e di buttarmi a terra. Fu una cosa molto rapida, molto istintiva. Qualcuno doveva averglielo insegnato.”
Carl sbiancò. Stevens non disse nulla.
“Fu lei, signor Riley? Insegnò a sua sorella come difendersi? Voleva che potesse badare a sé stessa, mentre lei era dall'altra parte del mondo e la lasciava sola nei suoi problemi? Immersa fino al collo nella droga e nei ragazzi che volevano scoparsela? La fece sentire a posto con la coscienza, insegnarle quella stronzata prima di scappare in Iraq o in Afghanistan?”
Carl tremava dalla rabbia.
“La fece sentire un bravo fratello maggiore? Carl?”
Carl aprì la bocca, gli occhi pieni di furore, ma fu preceduto dal rumoroso e irritante beep del telefono. La chiamata era stata interrotta.
Carl strinse i pugni ed emise un grugnito di frustrazione. Stevens temeva che avrebbe preso a calci qualcosa, invece il ragazzo crollò in ginocchio. Il suo respiro era accelerato e irregolare.
Lo sceriffo si accorse, con un certo shock, che Carl stava piangendo. Vedere un uomo così duro piangere era uno spettacolo strano e spaventoso.
“Carl...”
Con una certa esitazione, Stevens gli mise una mano sulla spalla. Il ragazzo non la respinse, il che sembrò un buon segno.
“Carl...”
“Lui sa, sceriffo.” Disse il ragazzo, tra le lacrime. “Chiunque sia, sa cose che non dovrebbe sapere.”
“Quella mossa di cui ha parlato? E' veramente qualcosa che insegnasti a Kelly?”
Carl annuì, scosso dai singhiozzi.
“Io- Io- Io le avevo insegnato alcune cose. Volevo che sapesse difendersi. Io-”
Carl si mise a ululare dal dolore.
“Dovevo proteggerla! Dovevo essere lì! Era compito mio!”
Lo sceriffo gli strinse la spalla. Forte.
“Carl. Non è colpa tua. E' colpa di quel mostro. Chiunque sia. E noi lo troveremo.”
Ma Carl non sembrò ascoltarlo. Si afflosciò sul pavimento, completamente divorato dal proprio dolore. Lo faceva sembrare piccolo e senza ossa, una membrana floscia che conteneva un'angoscia troppo grande da essere espressa a parole.
Stevens pensò che forse gli faceva bene. Che forse si era tenuto quelle lacrime dentro per troppo tempo. Ma chi poteva dirlo? Forse il ragazzo piangeva così ogni notte, nella solitudine di casa sua, sotto gli influssi dell'alcol. Le lacrime non guariscono un dolore così profondo.
Alcune persone parlano di superare il dolore, di rifarsi una vita. Ma sono puttanate. Uno impara a tenere a bada il dolore. A conviverci. A ignorarlo il più possibile, tenendosi occupati. Ma perdere qualcuno che si ama, che si ama davvero, è come perdere un braccio. Puoi vivere la tua vita, lavorare, fare cose che ti piacciono. Persino divertirti. Ma quando sei a casa, da solo, senza nulla che ti distragga, ti ritroverai quasi sempre a fissare quello spazio vuoto. Quel posto dove, una volta, viveva una parte di te.
“Lo prenderemo, Carl. Mi senti? Lo prenderemo.”
Lentamente, il ragazzo riprese il controllo. Si alzò a sedere e appoggiò la schiena al divano. Gli occhi erano rossi, il viso coperto di lacrime e muco.
Con incertezza alzò quegli occhi chiari, così simili a quelli della sorella morta, e incrociò lo sguardo del poliziotto. Poi, il suo viso si indurì. Divenne più risoluto.
Lo sceriffo gli tese la mano e lo aiutò ad alzarsi.
“Prendiamo quel figlio di puttana.” Disse il ragazzo.
“Prendiamo quel figlio di puttana.”
La notte era calda e silenziosa. Le lucciole svolazzavano pigramente davanti alla finestra, beatamente inconsapevoli del dolore e delle promesse degli esseri umani.

FINE CAPITOLO 4












venerdì 20 agosto 2021

MANI SPORCHE - CAPITOLO 3


CAPITOLO 3: DUBBI 


“Non le viene in mente nient'altro, sceriffo?”
“No, signore. Vi ho detto tutto.”
I due agenti federali lo fissavano, i loro volti colmi di trasparente antipatia.
“Quindi qualcuno che afferma di essere il vero assassino l'ha chiamata due volte, nell'ultima settimana. E lei si è degnato di dircelo solo ora, dopo la morte di una ragazza?”
Stevens chiuse gli occhi e si passò la mano sulla barba. Era stanco. Era affamato. Era spaventato. Ma, soprattutto, era veramente stufo di questi due omuncoli in giacca a e cravatta. L'agente Jones, con quegli stupidi baffoni da Stalin e l'acqua di colonia mefitica. L'agente Rogers, con quel ridicolo riporto a coprirgli la pelata.
Aveva provato già molte volte a mantenere rapporti cortesi con loro, ma non gli avevano mai dimostrato molto rispetto. Era ufficialmente stufo di provare. La vita è troppo breve per fingere che ci piacciano gli stronzi.
Lo sceriffo riaprì gli occhi e fissò i due agenti.
“Non ve l'ho detto prima, perché non c'erano prove che fosse davvero un individuo pericoloso e sappiamo tutti e tre che non ero tenuto a dirvelo. Sappiamo anche che mi avreste solo preso per il culo, se vi avessi chiamato per una cosa del genere senza che ci fosse un cadavere di mezzo. Ho documentato l'accaduto alla stazione, ho fatto quello che dovevo.”
Ora Stevens si alzò in piedi e si rimise il cappello, che fino a quel momento aveva tenuto educatamente in mano.
“Se volete ancora fare gli snob arroganti con me, lo stupido sceriffo di provincia, accomodatevi. Se volete continuare a odiarmi perché ho preso Jimmy Chris prima di voi, datevi alla pazza gioia. Io ho sempre cercato di collaborare con voi, anche se siete due teste di cazzo. Ora, se permettete, me ne andrei a dormire.”
Si avviò verso la porta, senza degnarli di uno sguardo.
“La fa sentire un grand'uomo, non è vero?” Disse Rogers. “Aver preso Jimmy Chris.”
Lo sceriffo non si voltò.
“No. Ho fatto solamente il mio dovere. Ho fermato un mostro.”
“Ma se la voce al telefono dice il vero, lei non ha preso il mostro giusto.” Disse Jones. “Ha sbagliato.”
“Se ho davvero sbagliato, non è a voi che devo chiedere scusa.”
Stevens uscì dalla stanza, cercando di ignorare il martellante mal di testa che gli pulsava nelle tempie.

Di nuovo nel Pensatoio. Che bellezza.

Stevens fissava le foto, con il voto rigido e pallido.
“Cristo... Cristo...”
Non poteva essere vero. Come poteva essere vero?
La ragazza si chiamava Christy Nolan. Aveva ventisei anni e li avrebbe avuti per sempre. Il suo volto era una maschera di puro terrore e agonia. Era circondata dal proprio sangue. La gola era stata recisa da un cavo metallico. Una morte dolorosa che doveva essere sembrata lunghissima.
Era tutto familiare. Fin troppo familiare.
Lo sceriffo si concentrò su un'altra foto. Era quella di un piccolo drago di plastica, di colore rosso. Gli occhi verdi del piccolo rettile giocattolo sembravano deriderlo.
“Come fai a saperlo, bastardo? Come fai a saperlo?”
Nessuno avrebbe dovuto sapere del drago, a parte lui. Ogni altra persona che avrebbe potuto saperlo era morta, ormai.
“Come cazzo è possibile...”
Qualcuno bussò alla porta, facendolo sussultare.
“Sceriffo? Sono Weathers.”
“Accidenti, mi hai fatto venire un colpo. Entra.”
Il suo vice entrò, con sguardo preoccupato.
“Scusi, non volevo spaventarla. Volevo solo chiederle... Sì, insomma, sta bene?”
“Sto bene, Weathers. Ti ringrazio.”
“Ne è sicuro? Tutto questo è- Sarebbe troppo per chiunque.”
“E' troppo. Ma sto bene, non preoccuparti per me.”
Weathers annuì, poco convinto ma rispettoso.
“Posso fare qualcosa per lei, sceriffo? Come posso aiutare?”
Stevens ci pensò un attimo.
“A che ora è la conferenza stampa?”
“Alle sette di stasera.”
“D'accordo. Voglio che fai una cosa per me.”
“Mi dica.”
“Chiama il direttore Graysmith. Digli che domani andrò da lui.”
“Al carcere?”
“Sì.”
“Io- Certo, faccio subito.”
Weathers uscì dalla stanza.
Stevenes fissò il vuoto per qualche istante, poi tornò a fissare quel dannato drago rosso. Non per la prima volta in vita sua, si chiese perché erano le cose brutte, quelle che sembravano tornare più spesso da te.

Poiché c'era ancora qualche ora, prima delle conferenza stampa, lo sceriffo decise di andare a mangiare un boccone da Maggie. Anche quel giorno, era pieno di clienti. Del resto, era una bellissima giornata.
Stevens si sedette al bancone, come faceva sempre, togliendosi il cappello e ricambiando distrattamente i saluti che gli rivolgevano altri clienti. Forse era una sua impressione, ma molti dei loro sguardi gli sembravano spaventati, pieni di dubbi. Non li biasimava, del resto. La notizia della ragazza morta lo aveva scosso nel profondo ed era normale presumere che sarebbe stato lo stesso per molti altri suoi concittadini.
Erano tutti convinti che quell'orrore fosse stato finalmente sepolto, insieme al corpo di Jimmy Chris. Invece era tornato. Come un orribile zombie, non sembrava poter essere ucciso davvero.
“Sceriffo!” Lo accolse Maggie, col suo solito sorriso smagliante. “Che cosa le preparo di buono?”
“Ciao, Maggie. Per favore, potresti darmi un panino al pollo e una bi-”
Stevens si fermò.
“Sì, sceriffo?”
“Un panino al pollo e del succo d'arancia, per favore.”
“Arrivano subito!” Rispose lei con un occhiolino.
Lui le sorrise, ma era un sorriso forzato.
Una birra. Aveva quasi chiesto una birra. Gli era uscito fuori da solo, per distrazione. Una cosa del genere non succedeva da anni. Si era illuso di aver sconfitto definitivamente automatismi del genere. Ma, per l'appunto, le cose brutte non sembrano andarsene mai davvero.
Si passò le mani sul volto. Dio, com'era stanco.

Venti minuti dopo, Maggie venne a prendere il piatto vuoto.
“Come sta oggi, sceriffo?”
“Tutto OK, grazie. Tu?”
Lei fece spallucce, con un sorrisino dolce ma stanco.
“Tiriamo avanti.”
“Già.”
Maggie si fece seria, studiandolo con quei grandi occhi chiari.
“Davvero, sceriffo. Come sta? Quella ragazza morta... Deve essere stato orribile.”
Lui annuì, senza commenti. A essere sinceri, non gli andava molto di parlarne. Lo aspettava una lunga conferenza stampa dove avrebbe dovuto discuterne anche troppo.
Lei parve capire e non insistette.
“Vuole un dolce?”
“No, grazie. Sono pieno come un uovo.”
Lei gli sorrise, con aria triste.
“In realtà, se posso permettermi, ha l'aria sciupata.”
“Puoi permetterti, ma non serve che ti preoccupi. Perdere un paio di chilo può farmi solo che bene.”
Strevens si alzò e si rimise il cappello, porgendo a Maggie i soldi del conto.
“Grazie mille, era tutto buonissimo. Ora devo andare.”
“Si riguardi sceriffo, mi raccomando.”
“Anche tu, Maggie. Stammi bene.”
Stevens uscì dalla porta, inconsapevole dello sguardo amorevole e preoccupato che lo seguì fino alla macchina.

Di nuovo la centrale di polizia. Lo sceriffo guardò il proprio orologio: erano le cinque e mezza. Novanta miseri minuti lo separavano dalla conferenza stampa.
“Che bellezza...”
Se c'era una cosa che lo metteva di malumore, ogni volta e senza eccezione, era ritrovarsi circondato da giornalisti rompiscatole che cercavano di mettere a nudo ogni sua minima mancanza o facevano stupide speculazioni su indagini di cui sapevano poco o niente. E, quel giorno, era già abbastanza di malumore senza bisogno del loro aiuto.
Scese dalla macchina e la chiuse a chiave, poi si diresse, senza entusiasmo, verso l'entrata.
“Sceriffo, aspetti!”
Si voltò, incuriosito. Carl Riley veniva verso di lui, a passo spedito.
“Carl! Buon pomeriggio. Cosa ti-”
“Ho sentito di quell'omicidio.” Lo interruppe il ragazzo. Il suo sguardo, notò Stevens, era assolutamente spiritato, quasi folle. Le occhiaie intorno a quegli occhi allucinati dicevano che il ragazzo non aveva dormito. I piccoli capillari esplosi sul suo naso e sulle sue guance dicevano che aveva bevuto tutta la notte. E tutte le notti precedenti, probabilmente.
“Ah, sì...” Rispose lo sceriffo, esitante. “Stiamo indagando, Carl. Non sappiamo-”
“Gira voce che l'omicidio sia come quello di Kelly e delle altre. Come quelli commessi da Jimmy Chris.”
Stevens sospirò.
“Non posso dire troppo, Carl. Ma sì, ci sono notevoli analogie.”
“Gira anche voce che lei abbia ricevuto una telefonata. Da qualcuno che afferma di essere il vero assassino. Non solo di questa ragazza, ma di tutte le altre venute prima.”
“E tu come lo-”
“Le notizie girano sempre, sceriffo. E io so ascoltare. E' vero? Ha ricevuto quella telefonata?”
Si fissarono in silenzio, per alcuni istanti.
“Sì.” Rispose semplicemente lo sceriffo. “L'ho ricevuta.”
“E cosa ne pensa? Crede che possa dire il vero?”
Lo sceriffo esitò, poi guardò Carl negli occhi. Trovò che gli risultava difficile. Si vergognava, forse? Sì, si vergognava. Guardare gli occhi di quel ragazzo stanco e sofferente lo faceva sentire male.
Quel ragazzo che aveva perso una sorella. Quel ragazzo rimasto solo. Quel ragazzo che cercava inutilmente di disinfettare le proprie ferite con litri e litri d'alcol.
Quel ragazzo a cui aveva promesso di prendere l'assassino.
“Le prove contro Chris erano schiaccianti, Carl. E ha confessato. Lo sai meglio di me.”
Carl strinse i pugni, barcollando leggermente.
“Non è quello che le ho chiesto, sceriffo. Lei pensa che l'uomo al telefono dicesse il vero? E' possibile? Chris era innocente? Si è- Ci siamo sbagliati?”
Stevens lo guardò negli occhi. Si sforzò di farlo.
“E' decisamente improbabile.”
Carlo lo studiò a lungo. Il suo volto divenne pian piano più triste. Una dolorosa combinazione di dolore e sorpresa. Era quasi insopportabile da guardare. Carl era venuto lì per essere rassicurato, ma guardare Stevens stava avendo su di lui l'effetto opposto.
“Lei ha il dubbio, non è vero? Lei non è sicuro.”
“Carl...”
“Perché? Perché ha il dubbio? Questo nuovo omicidio potrebbe essere semplicemente opera di un imitatore, no? Non è la spiegazione più ovvia?”
“Infatti.”
“E allora perché ha quella faccia? Cosa, di quella voce, l'ha spaventata tanto?”
“Non è solo la voce, Carl.”
Stevens non aggiunse altro. Non poteva.
“E allora cos'è? Cosa succede?”
“Io- Mi dispiace, Carl. Non posso parlare di un caso aperto. Ora, se permetti-”
Fece per voltarsi, ma Carl gli mise una mano sulla spalla. Non strinse, non fu un gesto violento. Fu un gesto delicato, da amico.
“Sceriffo, la prego. Mi parli.”
Stevens sospirò, questa volta realmente incapace di ricambiare lo sguardo del ragazzo.
“Scusami, Carl. Non posso. Non posso.”
Detto questo, si diresse verso l'entrata della stazione. O, per meglio dire, scappò.
Carl non disse nulla. Rimase semplicemente lì, in piedi, con lo sguardo ferito e perso nel vuoto.
Sopra di lui, il cielo estivo splendeva. Meravigliosamente blu, incredibilmente vasto e assolutamente indifferente.

La conferenza non fu brutta come aveva pensato. Fu peggio.
Mai, in vita sua, aveva avuto tanta voglia di mandare tutti i giornalisti al diavolo. Una parte di lui, la parte più stanca e spaventata, ebbe quasi il folle impulso di sparare in aria per liberarsi di quei rompicoglioni. Ma, ovviamente, non lo avrebbe mai fatto. Invece, mantenne la calma e rispose a tutte le domande, ignorando il crescente senso di angoscia che gli andava crescendo nel petto.
“E' possibile che vi siate sbagliati, sceriffo?” Chiese qualcuno.
“Tutte le prove puntano nella direzione opposta.” Rispose semplicemente lui.
“Quindi lei pensa che si tratti di un copycat?” Chiese qualcun altro.
“E' la spiegazione più probabile, sì.”
“Cosa ha da dire, invece, a chi afferma che la polizia ebbe troppa fretta di chiudere il caso?”
“Ridicolo. Ci vollero anni per prendere Chris. Fu un'operazione lunga ed estenuante. Non fu una soluzione facile, fu semplicemente la cosa giusta. Facemmo il nostro lavoro. Seguimmo le prove.”
“Cosa ci può dire della voce al telefono, invece? Cosa le ha detto?”
“I dettagli di quella conversazione sono parte dell'indagine. Non possiamo rivelarli.”
“Sceriffo, lei si è sempre espresso contro la pena di morte, non è forse vero?”
“Sì.”
“Come la fa sentire, l'idea che forse avete ucciso un uomo innocente?”
A Stevens venne quasi da ridere, di fronte all'assurdità e alla scorrettezza di quella domanda. Come si faceva a chiedere una cosa del genere. Ma lo sceriffo tenne duro e fece un lungo respiro, prima di rispondere.
“Come pensa che mi faccia sentire? Già non mi rende felice l'idea di uccidere l'uomo giusto-”
Si interruppe per un secondo, rendendosi conto di aver inconsciamente citato la voce al telefono, usando quella definizione. “Figuriamoci se avessimo giustiziato quello sbagliato. Ma non ci sono prove per credere che Jimmy Chris fosse innocente, al momento. E ci sono molte prove che dicono l'esatto opposto. Quindi invito tutti ad aspettare l'esito delle indagini e a non fomentare il panico.”
Andò avanti così per altri quindici minuti. Domande ugualmente idiote, se non peggio.
Poi, sia lodato Dio per i piccoli favori, i giornalisti se ne andarono e Stevens fu finalmente libero di tornare a casa sua. Aveva visto abbastanza persone, per quel giorno. E sentito abbastanza idiozie.
Guidò appena sotto il limite di velocità, cercando di ignorare la gran voglia di alcol che gli aveva riempito la mente nell'ultima ora. Si sentiva come se avesse smesso di bere solo il giorno prima. Fragile. Stanco. E, soprattutto, spaventato. Profondamente spaventato.

Le sue gambe sembravano di marmo. La sua testa pulsava più che mai. Barcollando, si lasciò cadere sul divano. Chiuse gli occhi ed emise un grugnito che esprimeva allo stesso tempo frustrazione, angoscia e stanchezza.
“Che cazzo di giornata...”
Avrebbe dovuto mangiare, ma non aveva la minima fame. Avrebbe dovuto darsi una lavata, ma non ne aveva la minima voglia. Tutto quello che voleva, era un drink. Uno scotch sarebbe stato l'ideale. Magari un paio.
Voleva solo andare al market di fronte, comprare una bottiglia di quello buono e sbronzarsi come si deve, come ai vecchi tempi.
Come lo voleva...
Del resto, perché no? Chi glielo vietava? Era un uomo, no?
Oh, sì era un uomo. Un uomo anziano. Un uomo solo. Un uomo triste. Un uomo che se la faceva addosso dalla paura. Cosa aveva da perdere, un uomo così?
Ma aveva promesso. Aveva promesso.
“Cazzo!” L'imprecazione avrebbe dovuto essere furente, invece gli uscì fuori fiacca e lamentosa.
Lo sceriffo si stese sul divano e si tolse maldestramente le scarpe.
“Oh, Mary. Mary...”
Chiuse gli occhi, senza quasi notare le lacrime che gli colavano lungo le guance e andavano ad accumularsi sui suoi folti baffi.
“Mi manchi, Mary...”
Si addormentò così. Piangendo e pensando alla sua dolce Mary, che non c'era più.
Era andata via, scomparsa per sempre. Dove non si poteva più parlare con lei. Dove non poteva più dargli il conforto che avrebbe desiderato. Dove non poteva più dargli un parere sulle cose.
Quanto gli mancavano i pareri di Mary. Il suo modo di mettere le cose in prospettiva, di vedere il quadro complessivo...
Ma Mary non c'era più. Non aveva più pareri su nulla. O, se li aveva, non poteva condividerli con lui.
Era morta. Presa da questo mondo idiota e triste, che ora era ancora più idiota e triste.
Presa.
Come Kelly Riley. Come tutte le altre vittime. Come mille altre persone senza colpa.
Prese da Dio, prese dall'universo, prese dal caso. Per un motivo che forse era profondamente complesso e forse era profondamente imbecille.
Tutte vittime. Vittime di un mondo dalle mani sporche.

Quando il campanello iniziò a suonare nel bel mezzo della notte, il primo pensiero intorpidito dello sceriffo fu che si trattasse dello squillo di un telefono. Che l'assassino gli stesse telefonando di nuovo.
Lentamente, iniziò a rendersi conto di cosa stesse accadendo. C'era qualcuno alla porta. Qualcuno che continuava a suonare il campanello senza sosta. Guardò il proprio orologio nella debole luce della luna e vide che erano le tre.
La confusione del sonno stava sparendo velocemente. Stevens si fece vigile e si alzò in piedi, estraendo la pistola. Con cautela, si avvicinò alla porta.
“Chi è?” Chiese con voce decisa.
Il campanello smise di suonare.
“Chi è?” Chiese di nuovo, stringendo più forte il calcio della pistola.
“Sceriffo, sono Carl. Devo... Le devo parlare.”
“”Carl? Che diavolo ci fai qui? Lo sai che ore sono?”
Un momento di silenzio.
“Onestamente, no. Mi fa entrare?”
Dopo un attimo di esitazione, Stevens mise via la pistola e tolse il catenaccio alla porta, ritrovandosi faccia a faccia con il ragazzo. Barcollava, aveva lo sguardo confuso e sembrava avere difficoltà a mettere le cose a fuoco.
Era chiaramente ubriaco.
“Carl... Non dovresti essere qui. Dovresti essere a letto.”
“Non riesco a dormire molto bene, sceriffo.”
“Quanto hai bevuto, Carl?”
Il ragazzo si passò la mano tra i corti capelli.
“Mi fa entrare?”
Con un sospiro, Stevens gli fece cenno di accomodarsi.
“Siediti un attimo, Carl.” Gli disse, chiudendo la porta.
Il ragazzo scosse la testa, sempre barcollando leggermente.
“No, grazie.”
“Quanto hai bevuto, Carl?”
“Non ha importanza.”
“Quella roba ti ucciderà.”
“Fosse vero. Ma non cerchi di sviare il discorso, lei sa benissimo perché sono qui.”
Stevens lo guardò. Sì, lo sapeva.
“Carl, te l'ho detto. Non posso rivela-”
“Basta, sceriffo. La smetta. Sta succedendo qualcosa e io voglio sapere cosa. Voglio capire.”
“Non posso, Carl.”
Il ragazzo lo guardò a lungo. Stevens vide una grande rabbia, dietro a quegli occhi arrossati. La rabbia si sciolse in una profonda, avvilita tristezza. Lo sguardo di un uomo che convive con tanto, tanto dolore. Ma era anche uno sguardo risoluto.
“Io la rispetto, sceriffo. Lo sa. Ma.... Ma non mi tratti come un idiota. E non finga di non conoscermi. Lei mi ha fatto una promessa, tempo fa. Se non ha preso il vero assassino, sono disposto a perdonarla. Eravamo tutti convinti della colpevolezza di Chris. Non la biasimo. Nessuno si è impegnato più di lei, per questo caso. Ma voglio delle risposte ora. Perché non crede che si tratti di un semplice emulatore? Perché ha così tanta paura, cazzo?”
“Io-”
“Merito delle risposte, sceriffo. E lei lo sa.”
Stevens sospirò, riflettendo. Infine, prese una decisione.
“D'accordo, Carl. Ti dirò quello che so.”
Il volto del ragazzo si sciolse, riempendosi di sollievo.
“Grazie, sceriffo.”
“Ma a due condizioni.”
“Va bene.”
“Prima di tutto, devi promettermi che rimarrà tutto tra di noi. Me lo devi giurare.”
“Glielo giuro, sceriffo. A chi vuole che lo dica?”
Stevens annuì.
“Va bene.”
“E la seconda condizione?”
“La seconda condizione è che ti siedi, che cazzo. E che ci beviamo un caffè insieme.”
Carl sorrise leggermente.
“OK.”

Stevens mise le tazzine sporche nel lavandino della cucina.
“Grazie, sceriffo. Era molto buono.”
“Sono contento. Come ti senti?”
“Bene, non si preoccupi.”
Stevens guardò il viso del ragazzo. Gli occhi erano meno arrossati e non faticavano più per mettere le cose a fuoco. Forse non era lo sguardo di una persona completamente sobria, ma di certo era lo sguardo di una persona vigile.
“Sì, molto meglio.”
“Comunque non serviva.” Disse Carl. “Avrei comunque ricordato ogni parola, sceriffo. Non sono mai tanto ubriaco da dimenticare le cose. La mia mente non si spegne mai.”
“E' per questo che bevi così tanto, Carl? Vuoi vedere quanto alcol ci vuole per spegnere la tua mente?”
“Forse. Lei è astemio, vero?”
“Sì.”
“Da quanto?”
“Dodici anni.”
Carl annuì, ma non aggiunse altro.
“Se vuoi, potrei darti una mano a smettere. Potrei-”
Il ragazzo alzò la mano.
“Per favore, sceriffo. Non mi interessa.”
Stevens annuì, con tristezza.
“E' pronto a dirmi quello che sa, ora?”
Stevens si sedette su una poltrona e guardò il ragazzo negli occhi.
“Ricorda la prima condizione, Carl. D'accordo? Ti prego.”
“Ha la mia parola, sceriffo.”
Stevens si passò la mano tra i capelli e sospirò.
“Hai sentito di cosa hanno trovato, vicino al corpo dell'ultima vittima?”
“No. Che cosa?”
“Un drago. Un drago giocattolo, di colore rosso.”
“E quindi?”
“E quindi, di chiunque si tratti, sa qualcosa. Qualcosa che nessun altro, a parte me, dovrebbe sapere.”

Era una fredda mattina di primavera, quando fu trovato il corpo di Kelly Riley. Il cielo era sereno, un timido azzurro con una sfumatura vagamente malinconica. L'aria era così pulita e fresca da essere quasi dolorosa. Gli uccelli cantavano con una frenesia incessante e quasi ansiogena, era come sentire la più minuscola riunione di condominio del mondo.
Il cadavere era stato trovato da una coppia che faceva jogging. La ragazza aveva chiamato subito la polizia, mentre il suo fidanzato aveva vomitato ed era poi svenuto per una decina di minuti.
Stevens era stato anticipato sul posto dal proprio vice, che ai tempi era un uomo corpulento e barbuto di nome William Betty. Willy, per gli amici.
Lo sceriffo lo aveva raggiunto sulla scena del delitto. Il vice aveva l'aria pallida, quasi nauseata.
“Buongiorno, Willy.”
“B-buongiorno, sceriffo Stevens.”
Insieme, avevano osservato il cadavere. Kelly era circondata dal proprio sangue. I suoi occhi erano sbarrati in un'espressione agonizzante che lo sceriffo vedeva ancora nei propri sogni, qualche volta.
“Brutta storia...” Aveva mormorato Stevens.
“Già.”
“Il coroner dov'è?”
“L'ho appena sentito. Dovrebbe essere qui tra cinque minuti.”
“Va bene. Tu hai notato qualche dettaglio utile?”
“Io- No, niente.”
Lo sceriffo lo guardò in volto.
“Sicuro?”
Il suo vice non sembrava essere in grado di guardarlo negli occhi.
“Sì, sono sicuro.”
“Willy, guardami.”
Il vice aveva alzato lentamente lo sguardo. Gli occhi erano rossi, lo sguardo tremulo.
“Hai bevuto, Willy?”
“Io...”
“Dannazione, Willy. Sono le otto del mattino.”
“Mi dispiace, sceriffo.”
“Cazzo, Willy. Non va bene così.”
“Mi dispiace, sceriffo. Io-”
“Vai a casa, Willy.”
“Cosa?”
“Vai a casa. Non mi servi, in queste condizioni. E non voglio che altri ti vedano in questo stato. Vai, interrogherò io i due ragazzi che hanno trovato il cadavere. Agli altri, dirò che hai l'influenza. Vai a casa, dormi, e non ti azzardare a bere ancora. Almeno per oggi.”
“Io... Le chiedo scusa, sceriffo. Mi dispiace.”
“Lo so. Ora vai.”
Il coroner era arrivato poco dopo, facendo i suoi rilievi e constatando dettagli scabrosi che lo sceriffo non ripete', mentre raccontava la storia. Tanto Carl li conosceva fin troppo bene, ormai.
Tutti li conoscevano fin troppo bene, ormai.

Verso le nove di quella sera, Stevens aveva ricevuto una telefonata. Era stata una giornata massacrante, e il giorno dopo lo aspettava una anche peggiore. Il giorno dopo, sarebbe arrivato il fratello della vittima e avrebbero dovuto spiegargli cos'era successo.
Sollevò la cornetta, tenendo gli occhi chiusi.
Si aspettava brutte notizie. Le brutte notizie sembrano sempre susseguirsi, in giornate del genere. Una tira l'altra. E infatti, aveva ragione. Lo capì dal momento in cui Willy aprì bocca.
“Sceriffo, sono Betty.”
“Willy. Come stai?”
“Meglio. Cioè, la sbornia è passata.”
“Sarà meglio.”
“Ma c'è... C'è una cosa che le devo dire.”
Stevens sospirò.
“Che succede, Willy? Devo preoccuparmi?”
“Ho fatto una sciocchezza, sceriffo. Una vera sciocchezza.”
“Dimmi cosa hai fatto, Willy.”
“Potrebbe venire qui da me, sceriffo? La prego.”
Lo sceriffo sospirò di nuovo.
“Arrivo.”

Sebbene Willy fosse il suo vice, era in realtà l'agente più anziano, tra i due. Ai tempi del primo omicidio, aveva ben 67 anni. Aveva posticipato la propria pensione. Alla gente diceva che continuava a lavorare perché amava il proprio lavoro, ma Stevens sapeva che era una bugia. Willy continuava a lavorare perché lo terrorizzava starsene a casa da solo. Solo con sé stesso, con i propri demoni e con la bottiglia.
Era stato un uomo sposato, un tempo. Aveva una bella moglie, un avvocatessa di nome Sharon. E un figlio, ormai ventenne, di nome Jeffrey.
Purtroppo, però, l'alcol aveva bruciato molto di ciò che rendeva Willy un bravo marito e un bravo padre, per non dire un bravo poliziotto. E' per questo che era rimasto un vice, invece di diventare il capo di Stevens.
Willy e Sharon avevano divorziato da anni, ormai. Lei si era risposata, con un altro avvocato. E Jeffrey non chiamava mai il padre e non lo veniva mai a trovare.
Willy non era un violento, non aveva mai alzato un dito contro la sua famiglia. Ma l'alcol aveva bruciato la sua personalità, gli aveva tolto la dignità. Non stava dietro agli affari di famiglia, non passava molto tempo con loro, a malapena ci parlava. Pensava solo a bere. Alla fine, di lui non era rimasto più nulla che la sua famiglia riuscisse ad amare o sopportare, e così lo avevano lasciato solo con l'unica cosa che sembrasse importargli. La sua stupida bottiglia.
Stevens sapeva bene cosa volesse dire, essere incatenato a quel vizio. Uscirne non era stato affatto facile, per lui. Provava molta simpatia per Willy, e aveva sempre cercato di aiutarlo. E proteggerlo.
E sapeva che a Willy dispiaceva disperatamente aver distrutto così la propria vita. Incolpava solo sé stesso.
Una dipendenza grave è come una malattia grave. Come un cancro. Se non la si ferma, ti uccide. Ma, prima di finirti, cerca di strapparti via la personalità. Ti rende un'ombra di te stesso. Ti ruba la dignità. Se non si sta attenti, e se si ha molta sfortuna, alla fine rimane solo un involucro per il proprio dolore e per il proprio malessere. Si diventa, a tutti gli effetti, un'altra persona. Una persona prosciugata.
Non rimane nient'altro. Nient'altro.

Lo sceriffo si sedette sul divano di Willy. La casa era un disastro, disordinata e deprimente. C'erano bottiglie vuote ovunque.
“Cosa mi devi dire, Willy?”
Lo sceriffo non voleva girarci intorno.
“Io... Ho fatto una stupidaggine.”
“Che cosa hai fatto, Willy?”
Il vice sospirò.
“Io... Ho preso una cosa dalla scena del delitto.”
“Tu COSA?”
Willy strinse gli occhi, iniziando a piangere.
“Ero ubriaco. Ero confuso. L'ho visto lì, accanto alla vittima. E, non so, mi sono convinto che fosse lì per me. Che fosse un segno. Mi sono detto che probabilmente non c'entrava nulla con il delitto. Così l'ho preso.”
“Di che cosa stai parlando, Willy? Dannazione, cosa hai preso?”
Willy tirò su con il naso.
“Un- Un drago. Un drago di plastica. Uno stupido giocattolo. L'ho preso e me lo sono messo in tasca.”
“Cristo, Willy! Ma perché? Che cazzo vuol dire, che hai pensato fosse un segno?”
Willy si asciugò gli occhi con la manica.
“Jeffrey amava tanto i draghi, da bambino. Ero confuso, ero ubriaco, ho pensato che fosse lì per me. Che glielo avrei potuto regalare. Che mio figlio avrebbe ricominciato a parlarmi, se- Se-”
Willy ricominciò a piangere. Stevens lo fissò, con un misto di pena e impazienza. Poi, gli mise una mano sulla spalla.
“Willy... Tuo figlio ha vent'anni, ormai... Un drago di plastica che differenza avrebbe fatto?”
“Lo so, lo so! Io... Ho fatto una cazzata...”
“Puoi dirlo forte. E ora, il drago dov'è?”
“Era- Era sul tavolo.”
“Che vuol dire che era sul tavolo? Ora dov'è?”
“Io- Quando mi sono svegliato, l'ho visto lì e mi sono ricordato cosa avevo fatto. Così, l'ho- L'ho-”
“Lo hai buttato via. Questo, mi stai dicendo.”
Willy annuì, tirando su con il naso e senza rialzare lo sguardo.
“L'ho gettato nel fiume.”
“Cristo, Willy!”
Stevens si alzò in piedi, con la testa che gli scoppiava.
“Cosa vuole fare, sceriffo? Vuole che faccia rapporto?”
Stevens riflette' a lungo, prima di rispondere.
“Non farai nulla, Willy. Domani tornerai a lavoro e continueremo le indagini. Speriamo che non c'entrasse davvero nulla con l'omicidio. Inoltre, smetterai di bere, almeno la mattina e di certo non sul lavoro. Se ti vedo anche solo alticcio, mentre indossi quella divisa, ti caccio io stesso a pedate. E' chiaro? Non scherzo.”
“Va bene, sceriffo. Sono- Sono davvero desolato.”
“Lo so, Willy. Cazzo, lo so. Razza di idiota.”
Poi lo aveva abbracciato, lasciando che il vice piangesse a dirotto sulla sua spalla.


“Perché lo ha protetto?” Chiese Carl, dopo un paio di minuti di silenzio.
Stevens si passò la mano sul viso, arruffando i folti baffi.
“Avrebbe potuto perdere la pensione, se quella storia fosse venuta fuori. Era un uomo distrutto già così, quello lo avrebbe ucciso del tutto. Questo, pensai. E pregai che il drago non c'entrasse nulla con le indagini. Gli oggetti trovati vicino alle vittime successive, mi hanno purtroppo smentito.”
“E il suo vice non lasciò impronte sulla scena del delitto? Nessuno sospettò mai nulla?”
“No. La coppia che trovò il corpo non notò il drago. E, a quanto pare, Willy toccò solo il giocattolo.”
“E Jimmy Chris non disse mai nulla, riguardo al drago?”
“No. Disse di non ricordare se avesse lasciato qualcosa sulla scena del primo delitto. Che non era sicuro.”
“Crede che fosse sincero?”
“Io- Non lo so. Credo di sì. Ma non ne sono certo. La mente di Chris era un mistero per tutti, lui incluso. Questo credo.”
Carl annuì.
“Può essere. Oppure, non era l'assassino di mia sorella.”
“E' possibile. Ora capisci perché sono spaventato.”
Ci fu un momento di silenzio.
“Sceriffo, lei crede che il drago avrebbe potuto aiutare le indagini?”
Stevens si grattò la guancia.
“Non potremo mai saperlo con certezza. Ma io credo di no. L'assassino lasciò indizi solo più avanti. Furono quelli a condurci a Chris. Non era schedato, quindi delle impronte sul drago avrebbero fatto poca differenza. Detto questo, occultare una prova fu un errore imperdonabile. Un errore tanto mio, quanto di Willy. Una cosa di cui mi vergognerò tutta la vita. Ma non credo che le cose sarebbero andate molto diversamente, in ogni caso.”
“O forse, è quello che vuole credere?”
Stevens lo guardò.
“Forse.”
“Perché, se il vero assassino fosse stato qualcun altro, o se Chris avesse avuto un complice, magari quest'altra persona avrebbe avuto le impronte registrate. Magari il drago ci avrebbe condotto da lui.”
“E' possibile. Ma non ci furono mai prove che ci fosse più di un assassino, sulle scene del delitto.”
Carl corrugò la fronte.
“Il drago. Il primo, quello preso da Willy. Era rosso?”
“Non lo so. Non gli chiesi mai il colore.”
Carl si mise a riflettere.
“Chris non potrebbe averlo detto a qualcuno?”
“Immagino sia possibile, ma non riceveva molte visite. E non scriveva a molte persone. E di certo non venne mai fuori negli interrogatori o in un aula, di questo sono certo. In ogni caso, domani andrò al carcere, a indagare sui suoi contatti.”
“E lei è certo che Willy non lo abbia mai detto a nessuno?”
“Non credo proprio che l'avrebbe fatto. E, comunque, morì pochi mesi dopo. Cirrosi epatica. Alla fine, proteggerlo non cambiò nulla. La sua vita era già finita.”
“Ma non è impossibile che l'abbia detto a qualcuno, magari da ubriaco.”
“Non posso escluderlo del tutto, no.”
“E lei? Lo disse mai a nessuno?”
“Mai. Di questo sono assolutamente certo.”
Carl annuì, meditabondo.
“Beh, allora vediamo di fare il quadro della situazione.” Disse infine. “Per come la vedo io, queste sono le possibili spiegazioni: Chris aveva un complice, con cui magari alternava gli omicidi. Chris era un mitomane o era davvero convinto di essere l'assassino, perché era pazzo. Chris era un copycat dell'assassino originale, che ora vuole il riconoscimento. Oppure è questo assassino a essere un copycat, uno nuovo, qualcuno che forse conosceva Chris e ha voluto farle sapere che conosce i dettagli del primo omicidio.”
Stevens annuì.
“Sì, è un buon riassunto. Ma trovo improbabile che Chris fosse solo un mitomane. Trovammo tracce della sua presenza su almeno due corpi. Era lì, quantomeno in quei casi. Se non le ha uccise lui, le ha toccate. Era parte della questione.”
Carl annuì.
“Quindi, come ci muoviamo?”
“Ci?”
“Può giurarci, cazzo. Io andrò con lei.”
“Carl, non sei un poliziotto.”
“Allora mi assuma come consulente esterno. Con i miei trascorsi militari, può sembrare credibile, no?”
“Carl-”
“Io indagherò, sceriffo. Che sia con lei o senza di lei. Ma insieme, faremo un lavoro migliore. E lei me lo deve, dopo avermi tenuta nascosta questa storia. Specie se vuole che rispetti la prima condizione. Ora mi dica, come ci muoviamo?”
“Ne parleresti a qualcuno, Carl. Davvero?”
“Come ci muoviamo?”
Stevens sopsirò.
“Cazzo. Va bene. Domani andremo insieme da Greysmith, al carcere. Cercheremo di capire se ci sono persone che avevano un legame con Chris. E' il miglior punto di partenza.”
“Va bene.”
“Potrebbe essere pericoloso, Carl. Lo sai, vero?”
Carl sorrise, tra il divertito e l'amareggiato.
“Cosa possono farmi, sceriffo? Cosa possono farmi, che sia peggio di uccidere mia sorella o di quello che mi faccio da solo, ogni notte?”
“Potrebbero ucciderti.”
Carl rise, ma fu un suono senza gioia.
“Un'idea davvero terrificante.”
“Non hai paura di morire, Carl?”
“No. Sinceramente, no. E comunque, possono provarci, sceriffo. Ma, se questo stronzo dice il vero, ha ucciso solo una dozzina di persone. Io, in guerra, ne ho uccise almeno un centinaio. Non ne vado fiero, ma il fatto rimane. Che ci provi. Che venga pure.”
“Non è la stessa cosa, Carl. Tu non sei come questo- Questo mostro.”
Il ragazzo lo guardò negli occhi. Lo sceriffo quasi indietreggiò, vedendo il freddo, intenso furore che gli riempiva le pupille.
“No, forse no. Ma sono un mostro anche io, ormai. E non mi interessa essere altro. Voglio solo trovarlo. E farla finita.”
Stevens voleva dire qualcosa. Qualcosa di rassicurante. O qualcosa che smorzasse la terribile tensione che opprimeva la stanza.
Ma non gli veniva in mente nulla.

FINE CAPITOLO 3
























martedì 11 maggio 2021

MANI SPORCHE - CAPITOLO 2

CAPITOLO 2: PROMESSE


Lo sceriffo Stevens beveva il suo caffè, ringraziando il dio misericordioso che aveva creato quella piantina dai semi marroni. Aveva dormito sì e no quattro ore, la notte prima. Già gli davano problemi le notti dopo le esecuzioni, figuriamoci se poi si riceveva una telefonata come quella che lo aveva svegliato alle tre del mattino.
“Sono l'uomo giusto.”
Così aveva detto quella strana voce.
“Cazzate...” Borbottò Stevens, sorseggiando il suo caffè.
Ovviamente, non sarebbe stata la prima volta che un mitomane prendeva di mira la polizia. Cavolo, non sarebbe stata neanche la milionesima. Eppure, non riusciva a togliersi quella voce dalla testa. Innanzitutto era la prima volta che qualcuno del genere lo chiamava a casa, il suo numero era privato e lo dava a pochissime persone. Questo non gli piaceva affatto. Inoltre, mitomane o meno, avrebbe dovuto denunciare la cosa alla stazione e riempire una marea di stupide scartoffie.
Soprattutto, però, lo preoccupava il brivido che gli aveva percorso la schiena. La sensazione di star parlando davvero con qualcuno di pericoloso, non un semplice mitomane.
“Cazzate...”
Le sue dita battevano nervosamente sulla tazza. Gli impose di smetterla. Odiava essere così agitato, lo faceva sentire patetico. Ma c'era poco da fare, quella storia lo aveva scosso nel profondo.
L'idea che il loro uomo potesse non essere stato Jimmy Chris, che il vero killer fosse ancora in giro...
“Cazzate.” Disse di nuovo, cercando di metterci più convinzione. “Chris ha confessato. C'erano le prove. Era lui. Punto e basta.”
Si strofinò gli occhi, stravolto. Come ogni giorno, malediceva e benediceva la promessa che aveva fatto a Mary e a sé stesso, ormai nove anni prima. Era stata la cosa giusta e gli aveva salvato il fegato, su questo aveva pochi dubbi. Però, accidenti, quanto avrebbe bevuto volentieri un goccio di whisky, in giornate come quella...
Finì il caffè e si diresse verso la doccia, cercando pensare ad altro. Come succedeva spesso, la sua mente si concentrò invece su sua moglie, morta per uno stupido infarto ormai da dodici anni. La promessa l'aveva fatta alla sua lapide, ma sapeva che lei l'aveva sentita ugualmente. E non era sua intenzione infrangerla.
A Jimmy Chris aveva detto che forse avrebbe bevuto una birra per lui, due sere prima, ma era stata una balla. Era una cosa che diceva a ogni condannato a morte, quando li andava a salutare. L'idea che qualcuno bevesse alla loro salute sembrava fargli piacere e allo sceriffo non costava nulla dirlo.
Bere davvero, invece, gli sarebbe costato molto. Troppo.
“Neanche un goccio, Mary.” Sussurrò Stevens, aprendo l'acqua. “Neanche un goccio.”
Pensò agli occhi della sua dolce moglie. Alle sue mani callose, eppure delicate. Al modo in cui lo chiamava Danny. A come, ormai, nessuno lo chiamasse più così...
Poi, si impose di smettere e iniziò a spogliarsi.
I ricordi sono tra le cose più belle che abbiamo, ma vanno tenuti a bada. Bisogna farli entrare solo un po' per volta. La porta va richiusa subito. Perché se la lasci aperta, entrano anche le ombre. E le ombre non sono tue amiche. Le ombre vogliono solo farti del male.
Non poteva permettersi di iniziare la mattina piangendo, quel giorno. C'era troppo da fare.

Solitamente entrava in ufficio alle nove, se non c'erano casi urgenti a cui lavorare. Questo gli dava ancora un'ora di libertà, quindi decise di andare al diner di Maggie per delle uova strapazzate e un po' di pancetta.
Come al solito, il posto era pieno. Merito sia delle portentose abilità culinarie della proprietaria che delle sue forme prosperose, evidenti anche sotto i sobri vestiti da lavoro.
“Sceriffo Stevens, che bello vederla!” La donna gli rivolse un sorriso smagliante. “Il solito?”
“Sì, Maggie. Grazie.”
Stevens le sorrise e si sedette al bancone. In meno di cinque minuti, gli arrivarono il piatto con la colazione e una tazza fumante di caffè.
“Decaffeinato. Lo so che non le piace berne più di uno, la mattina.”
“Sei un tesoro.”
“Oh, lo so bene.”
Lei gli fece un occhiolino carico di significato, poi tornò sui fornelli. Aveva chiesto allo sceriffo di uscire ben tre volte, negli ultimi due anni. Molti degli uomini che frequentavano il diner lo consideravano un pazzo per non aver mai accettato, ma a lui poco importava. Maggie era una donna gentile e molto attraente, ma lui non aveva alcun interesse a frequentare qualcun altro, dopo la morte di Mary.
Inoltre, era troppo vecchio per lei. Una mummia, che cazzo.
Mangiò le uova in silenzio, assorto nei suoi pensieri.
“Sono l'uomo giusto.”
Quella frase continuava a frullargli per la testa. C'era da impazzirci.
Un ragazzo con i capelli molto corti e il volto affilato venne al bancone con una banconota da dieci in mano. Aveva profonde occhiaie e occhi molto tristi, nonostante il suo sorriso cortese.
“Grazie per le frittelle, Maggie. Erano ottime.”
“Sono contenta.” Rispose lei, accettando i soldi e andando a prendere il resto.
“Buongiorno sceriffo.” Disse il ragazzo, con un cenno rispettoso nella sua direzione.
“Buongiorno, Carl. Come stai?”
Lui fece spallucce.
“Normale, direi. Lei?”
“Non c'è male.”
Carl annuì, mettendosi in tasca il resto datogli da Maggie.
“Lavori sempre da Murphy?” Chiese Stevens.
“Sì. Mi trovo bene. Murphy è un tipo a posto.”
Stevens annuì. Murphy era il proprietario della più grande discoteca locale ed era davvero una brava persona, sorprendentemente. Carl faceva il buttafuori per lui. Poteva sembrare mingherlino, ma era un ex-militare con delle braccia di acciaio e apparentemente privo di paura. Qualcuno diceva che era pazzo, e forse c'era del vero in questo.
Una volta, Stevens era venuto a sedare un rissa nella discoteca. Aveva visto con i suoi occhi Carl atterrare un uomo grosso il doppio di lui, un energumeno ricoperto di muscoli e alto più di due metri. Niente cazzotti, gli aveva semplicemente stretto le mani e piegato le braccia verso il basso, freddo e inarrestabile come una pressa idraulica. Alla fine, l'uomo si era messo a piangere e a chiedere scusa, come un bambino.
Sì, era decisamente meglio non fare incazzare Carl Riley.
“La saluto sceriffo. Stia bene.”
“Anche tu.”
Il ragazzo uscì dal diner, avviandosi verso la sua auto.
“Bravo ragazzo.” Disse Maggie. “Non è vero?”
“Molto.” Confermò Stevens.
“E' stato forte a rimettersi in piedi, dopo quello che è successo a sua sorella.”
Stevens annuì. La donna lo guardò intensamente, con i suoi grandi occhi grigi.
“Meno male che ha catturato Jimmy Chris, sceriffo. Ringrazio Dio ogni sera, per questo. E sono sicura che anche Carl lo fa.”
“Non penso che Carl creda in Dio, Maggie.”
“Beh, senz'altro ringrazia lei. Ha catturato quel mostro, proprio come gli aveva promesso.”
Stevens non disse nulla. Non sapeva cosa dire.
Maggie esitò un attimo, prima di parlare di nuovo.
“Carl c'era, sceriffo? A... All'esecuzione?”
“No. Non so perché. Ma di certo era suo diritto risparmiarsela.”
Lei annuì, con convinzione.
“Probabilmente neanche io sarei voluta andare.”
“Già.”
Rimasero in silenzio per qualche momento.
“Maggie, Carl beve molto, quando viene qui?”
Lei assunse un'espressione triste.
“Abbastanza. Non gli servo alcolici prima dell'ora di pranzo, ma compensa alla grande nel pomeriggio. E penso che beva parecchio anche a casa, da solo. Ma devo dire che non sembra mai ubriaco. Lo regge bene.”
Stevens annuì.
“Sì. Purtroppo, sì.”
Lo sceriffo si alzò in piedi e prese fuori il portafogli.
“Dieci dollari. Tieni il resto come mancia, va bene?”
“Senza farmelo dire due volte.” Disse lei, con il tipo di sorriso caloroso che potrebbe facilmente far innamorare un uomo. “Buona giornata, sceriffo.”
“Anche a te, Maggie.”

Le parole sui moduli avevano ormai perso qualsiasi significato. Stupidi termini di burocratese e codici numerici senza senso si mischiavano davanti ai suoi occhi, dandogli la nausea. Un terribile mal di testa gli scavava nelle tempie come un uccellino che cerca di tirare fuori un verme dal terreno.
“Cazzo...” Mormorò Stevens, massaggiandosi la testa.
Aveva quasi finito, grazie a Dio. Era un'ora che riempiva quei moduli, documentando minuziosamente la telefonata che aveva ricevuto la notte prima.
“Suvvia, sceriffo. Sicuramente era uno scherzo.” Gli aveva detto Weathers, il suo vice. “Non serve che lo scriva. Non fa niente.”
Ma lo sguardo severo di Stevens era stato sufficiente a farlo tacere. Il caso Chris era stato troppo grosso, non si poteva trascurare nulla. Probabilmente non era importante e quel verbale sarebbe stato archiviato in una scatola polverosa per sempre. A lui andava benissimo. Anzi, ci sperava con tutto il cuore. Ma se ci fosse stato del vero o se comunque avesse avuto importanza per il caso, era fondamentale scrivere tutto. Finché il ricordo era fresco nella sua mente.
Finalmente, Stevens digitò l'ultima parola sulla sua macchina da scrivere ed ebbe finito. Con un sospiro di sollievo, impilò i fogli e li spillò. Poi mise il modulo compilato sulla scrivania e guardò distrattamente il proprio ufficio.
Era una stanza accogliente e luminosa. Lo sceriffo voleva solo cose che gli ispirassero un atteggiamento positivo, lì dentro. Cose belle e cose che gli ricordavano perché facesse quel lavoro.
C'era la sua foto di sua moglie, ovviamente, in bella vista sulla scrivania. Accanto a quella, una di lui e i suoi fratelli, tutti adolescenti o poco più, mentre abbracciavano la loro piccola, caparbia madre. Che aria fiera che aveva. Solo lei sapeva sembrare così dura e così gentile allo stesso tempo. Sotto le vecchie chiappe stanche dello sceriffo, c'era una morbida e spelacchiata poltroncina che ormai utilizzava da più di quindici anni. Era sformata, sbiadita e meravigliosamente comoda.
Sulla pareti, un po' di tutto. C'era un bellissimo quadro di Van Gogh, raffigurante girasoli e un cielo tanto impossibile quanto mozzafiato. C'erano lettere di ringraziamento e disegni colorati datigli da varie famiglie nel corso degli anni. Encomi e attestati vari. Infine, foto con vari pezzi grossi, compreso il sindaco e il governatore (queste le teneva appese più che altro per diplomazia, molte di quelle persone gli stavano cordialmente antipatiche).
“Finito, capo?” Chiese Weathers, entrando nel suo ufficio.
“Sì. E meno male, stavo per chiederti di venirmi a sparare in testa.”
Il vice ridacchiò.
“E' proprio sicuro che non vuole che le insegni a usare il computer? Risparmierebbe un sacco di tempo.”
Lo sceriffo sorrise.
“Bill, io sono un dinosauro. Lo sai. Quelle diavolerie non le capisco e mi fanno paura. E le mie stupide zampette da tirannosauro non saprebbero neanche digitare sulla tastiera. Lasciami morire nella mia ignoranza. Ormai è tardi per imparare qualcosa di complesso come i computer, per me.”
“Secondo me si sottovaluta.”
“Forse. O forse sono solo pigro.”
Weathers sorrise.
“Ecco, a questo già ci credo di più.”
“Bada a come parli.” Gli rispose Stevens.”Ti mando a dirigere il traffico.”

Gli agenti della centrale chiamavano quella stanza “Il Pensatoio”. Era dall'altra parte del corridoio rispetto all'ufficio dello sceriffo ed era in tutto e per tutto il suo completo opposto.
Era buia e sterile. Non aveva finestre. La luce della lampadina a risparmio energetico era impietosa e vagamente bluastra. I computer erano i più moderni nella centrale, ma a nessuno piaceva usarli.
Le foto contenute in quella stanza non erano appese alle pareti, non quando i casi erano stati chiusi. Erano archiviate con attenzione, lontane dalla vista.
Quella non era una stanza di riposo e non era una stanza per il lavoro di tutti i giorni. Quella era una stanza per la roba brutta, quella davvero brutta. Quella che nessuno dovrebbe fissare troppo a lungo. Era la stanza per casi come quello di Jimmy Chris e delle ragazze uccise. Era la stanza dove si cercavano i mostri.
“Il Pensatoio è una stanza che non dovrebbe esistere.”
Queste erano state le parole di Weathers, la prima volta che aveva dovuto lavorare lì dentro. Lo sceriffo non avrebbe saputo dirlo meglio e si era limitato a dargli una pacca sulla spalla. Weathers era un uomo buono e semplice e aveva riassunto perfettamente la realtà dei fatti con quelle poche parole. Il Pensatoio era una stanza che non sarebbe dovuta esistere e veniva usata per indagare su cose che non sarebbero mai dovute accadere.
Stevens infilò il resoconto della telefonata in uno degli schedari metallici, insieme alle altre prove legate al caso Chris. Poi, fece qualcosa per cui avrebbe rimproverato qualsiasi suo agente: si mise a rimestare il passato. Prese fuori una delle cartelle e guardò le foto. Quelle orribili foto che ormai conosceva a memoria.
Quattordici donne, tutte giovani e carine. Tutte strangolate con un filo metallico, fino a recidere la carotide. Tutte lasciate in luoghi pubblici, con strani oggetti posti vicino al cadavere. A volte un dado, a volte un cubo di rubik, a volte una carta da gioco. Cose del genere. Roba poco costosa che si poteva facilmente comprare in qualsiasi negozietto o stazione di servizio del paese.
Nessuno aveva mai capito il significato di quegli oggetti e Chris stesso, sebbene reo confesso e molto aperto riguardo alle sue azioni, non aveva saputo dare spiegazioni. Semplicemente, gli era venuto in mente di farlo. Così aveva detto.
“Ero come un pittore che prova a disegnare qualcosa di nuovo” era stata la sua dichiarazione. Inoltre, aveva sempre sostenuto di non ricordare tutti i dettagli degli omicidi. Che si era sentito come ubriaco, mentre uccideva le donne e disponeva i corpi.
Molti non gli credevano, ma Stevens pensava che dicesse il vero. Qualunque cosa ci fosse dentro quell'uomo, qualunque oscurità malvagia lo avesse guidato, non era sempre presente. Era stata un mistero anche per Chris stesso.
In un solo caso non erano stati trovati oggetti vicino alla scena del delitto. Vicino al corpo della prima vittima, abbandonata in un parco, non era stato trovato nulla. Solo foglie autunnali e ghiaia. Forse qualche passante aveva rubato l'oggetto in questione, aveva ipotizzato qualcuno. Chris, una volta arrestato, aveva ammesso che quella donna era stata la sua prima vittima e aveva affermato di non ricordare con certezza se avesse portato un oggetto, quella volta. Gli sembrava di aver effettivamente portato un giocattolo, ma non era sicuro. E non ricordava di che cosa si trattasse.
In ogni caso, poco importava. Lo avevano preso.
Stevens fissò il volto senza vita della prima vittima, Kelly Riley. Occhi grandi e castani. Un volto affilato. Somigliava moltissimo a suo fratello Carl.
Maggie aveva ragione, pensò lo sceriffo, Carl era stato davvero forte a non impazzire del tutto, dopo quello che era successo a sua sorella. Era stato un vero e proprio eroe, che cazzo.
Il ragazzo era tornato di corsa dalla base militare, completamente devastato. I due fratelli avevano perso i genitori quando erano adolescenti e Kelly era tutta la famiglia che gli rimaneva. Stevens ricordava bene i suoi occhi spiritati e il modo in cui gli tremavano le spalle, quando lo aveva incontrato per la prima volta. Ricordava come Carl gli avesse stretto la spalla, facendosi promettete che avrebbero preso quel bastardo.
“Me lo prometta, sceriffo! Me lo prometta, la prego!”
Mai fare promesse che non sai di poter mantenere, diceva sempre sua madre. Ed era un ottimo consiglio. Ma c'era così tanto dolore, nel volto di quel ragazzo. Così tanto smarrimento.
Aveva promesso. E, due anni e tredici vittime dopo, aveva pensato di aver finalmente mantenuto la parola.
“Sono l'uomo giusto.”
Stevens sentì una fitta allo stomaco, chiedendosi per la milionesima volta se la telefonata fosse stata sincera. Se l'assassino fosse stato qualcun altro.
Era per questo che Chris non ricordava tanti dettagli? Era un mitomane? O un semplice complice?
Ma come poteva essere? I rilievi avevano accertato che l'assalitore era uno solo. Avevano trovato il DNA di Jimmy Chris sotto le unghie di una delle ultime vittime. Le sue impronte sul mento di un'altra. Aveva confessato, cazzo!
Che fosse stato così pazzo da essersi convinto di averlo fatto? Ma allora da dove uscivano il DNA e le impronte? Come potevano essersi sbagliati?
Stevens sentiva la testa che gli scoppiava. Mise via le foto e chiuse rudemente lo schedario. Venire lì era stato un errore. Uno stupido errore da novellino.
Si stava innervosendo per nulla. Non c'era nessun motivo tangibile per credere che il caso fosse ancora aperto. Quello al telefono non era il killer, era solo un deficiente con un pessimo senso dell'umorismo.
Il killer era stato preso. Era morto. Era finita. Punto.
“Cazzate...” Borbottò, spegnendo la luce e uscendo da quel posto orrendo. “Cazzate...”
Ma il suo tono era meno convinto che mai.

Finalmente ora di tornare a casa. Lo sceriffo si lasciò sfuggire uno sbadiglio, mentre spegneva le luci del suo ufficio e chiudeva la porta a chiave.
“Sceriffo, vuole venire da me?” Gli chiese Weathers, che lo aspettava all'uscita. “Io e gli altri ragazzi facciamo un pokerino. Ho comprato anche del ginger ale per lei.”
Stevens gli sorrise.
“Sei molto gentile, ma temo di dover rifiutare. Sono sfinito, voglio andare a casa e dormire come un sasso.”
Weathers si crucciò.
“Capito...”
“Se lo rifate la settimana prossima, ci sarò.”
Il volto di Weathers si illuminò.
“Davvero? Guardi che la prendo in parola!”
“Ci sarò. E vi spennerò come polli.”
“Allora va bene.” Disse il vice, con tono professionale. “E' libero di tornare alla sua abitazione, signore.”
Stevens rise.
“Un bel sollievo. Buonanotte, Weathers.”
“Buonanotte, sceriffo.”

Casa.
Esiste una parola più rilassante e accogliente?
Casa.
Il luogo dove puoi abbassare la guardia e smetterla di tenere dritta la schiena. Il luogo dove puoi permetterti di essere stanco. O, almeno, così dovrebbe essere. Così era sempre stato per lui.
Lo sceriffo Stevens si chiuse la porta alle spalle. In mano, teneva un cartone di pizza. Il profumo aveva già riempito l'abitazione. Si tolse subito le scarpe, con un grugnito di sollievo. Poi, appese la giacca e gettò il cappello sul divano.
Non voleva altro che una bevanda fresca e un pezzo di quella pizza. E magari qualche vecchio film in televisione. Gli andava bene tutto, anche un western con quello stronzo di John Wayne.
Un po' di pace, tutto qui. Era tutto il giorno che non desiderava altro.
Mise la pizza sul tavolino, poi andò verso il frigo. Aveva appena aperto l'elettrodomestico e preso la bottiglia della limonata, quando il telefono di casa squillò.
“Oh, ma andiamo!” Sbottò lo sceriffo. “Lo fanno apposta, non c'è altra spiegazione...”
Andò verso il telefono, irritato. Aveva ancora in mano la bottiglia, meravigliosamente gelida e invitante.
“Pronto? Qui Stevens.”
“Salve, sceriffo.”
Quella voce. Di nuovo quella voce.
Questa volta, però, lui non era rintontito dal sonno. Non aveva intenzione di stare al suo gioco.
“Le molestie telefoniche sono un reato, testa di cazzo. E farle a uno sceriffo non è affatto un'idea saggia. Smettila, prima che faccia rintracciare la chiamata e ti faccia arrestare.”
La voce modificata rise, di gusto.
“Mi piace quando si arrabbia. Ma sarebbe inutile, chiamo da una cabina telefonica.”
“Buon per te. Ora, se non ti dispiace, devo cenare.”
“Lei non mi prende sul serio, vero? O forse non vuole.”
“Perché dovrei? Cos'hai di così speciale? Credi di essere il primo mitomane con cui ho a che fare?”
“Mitomane.” La parola fu ripetuta con un tono riflessivo, meditabondo. “Questo crede?”
“Ci puoi giurare. Ora, se permetti-”
“L'angolo tra Wilson e la prima.”
“Cosa?”
“L'angolo tra Wilson e la prima.” Disse la voce, ora chiaramente arrabbiata. “Le ho lasciato un regalo. Così vedrà che non sono un mitomane.”
Lo sceriffo si grattò la fronte. Sentiva calore in volto. Era rabbia? Paura? Probabilmente entrambe le cose.
“Ma chi sei?”
“Gliel'ho già detto. Sono l'uomo giusto. E le prometto che si pentirà di avermi sottovalutato, sceriffo.”
La chiamata fu interrotta.
“Pronto? Pronto!”
Stevens riattaccò il telefono.
“Cazzo...”
Doveva contattare la centrale. Mitomane o meno, era stata fatta un segnalazione ed era suo dovere di sceriffo contr-
Il telefono gli squillò in mano, facendolo sussultare.
“Ma cosa... Pronto? Qui Stevens.”
“”Sceriffo.” Era Weathers. “Mi dispiace disturbarla, ma-”
“Cos'è successo?” Chiese lui, immaginando già la risposta.
“E' stato... E' stato trovato un cadavere.”
Un orribile brivido, violento come una pugnalata, attraversò la schiena dello sceriffo.
“Dove?”
“ Non molto lontano da casa sua. Tra Wilson e-”
“La prima strada.”
Un attimo di silenzio.
“L'ha chiamata di nuovo, vero?”
“Sì. Weathers... La vittima chi è?”
“Non lo sappiamo ancora. Una ragazza. E' stata... E' stata strangolata, sceriffo. Con un filo metallico, probabilmente. Le ha reciso la carotide.”
“Cristo... Arrivo subito.”
“Sceriffo. Un'altra cosa.”
“Dimmi.”
“Vicino al corpo, c'era qualcosa.”
“Maledizione. Cos'è?”
“Un giocattolo. Un piccolo drago di plastica.”
La bottiglia di limonata cadde a terra, andando in mille pezzi e schizzando il suo contenuto ovunque.
“Sceriffo? Sceriffo!”
“Sono qui, Weathers.”
“Sta bene? Ho sentito un rumore.”
“Sì, tutto bene. Mi- Mi è solo caduta una cosa.”
“Sta bene? La sua voce è strana.”
“Dammi dieci minuti, Weathers. Arrivo.”
“Sì, ma-”
“Dieci minuti.”
Lo sceriffo riattaccò e si passò le mani sul volto.
“Un drago... Un drago...” Mormorò Stevens, parlando alla stanza vuota. “ Cazzo, ma come fa a saperlo?”
La stanza non aveva risposte, ovviamente. Non c'era più nessuno, in quella casa, che potesse ascoltarlo o rispondergli.
Era solo.

FINE CAPITOLO 2



















MANI SPORCHE - CAPITOLO 4

CAPITOLO 4: LEGAMI   Nonostante fossero le dieci del mattino, il caldo era soffocante. Una cortina umida che ti premeva sulle tempie, ti fac...